I fenicotteri rosa, in un punto ideale d’incontro tra immaginazione e reale, costituiscono il riferimento dell’estetica visuale e musicale del nuovo lavoro, Flamants Roses, del pianista italiano, di stanza a Parigi, Nicola Sergio, che con il suo trio, formazione canonica nel jazz (piano-contrabbasso-batteria), costruisce lentamente e in modo pacato stratificazioni di emozioni su armonie trasognanti. Al trio (Mauro Gargano al contrabbasso e Christophe Marguet alla batteria) si aggiunge in diversi momenti il sax soprano di Jean-Charles Richard, a dare colore nell’esposizione dei temi e a dipingerne gli sviluppi. Le composizioni sembrano evocare degli immaginari flussi migratori tra il Mediterraneo e l’America Latina e le melodie divengono subito familiari per il loro accesso immediato all’ascolto. L’atmosfera tuttavia cresce e si fa più rigida a partire dalla tensione monotonale della quinta traccia, Marabouts, i marabù, gli uccelli che depredano i fenicotteri. La vita però rinasce già dalle ultime note del brano dai richiami arabeggianti che dischiudono il cielo verso schiarite estese con l’improvvisazione più spinta nei soli del piano (Velvet), fino a ritornare ciclicamente alla calma iniziale ritrovata, che ha assunto però una consapevolezza dei pericoli accaduti, Léonard, spingendosi oltre, Children Circle, tracce di chiusura prima della bonus track della stessa title-track Flamants Roses, stavolta eseguita in un dialogo libero a due tra piano e sax, il cui riascolto getta una luce differente sull’esperienza in precedenza trascorsa.
Sergio Spampinato
Ascolti:
Carla Bley se n’è andata. La grande musicista americana dalla folta chioma bionda a fungo ci ha lasciati il 17 ottobre scorso. Dipingerne a parole un ritratto non renderebbe il carattere trasversale e poliedrico della sua lunga carriera di pianista e compositrice. Ma è necessario dire che Carla è stata una musicista altruista, che ha composto per gli altri, lasciando che il proprio nome si legasse all’atto originario creativo di imponenti flussi di musica d’insieme e di orchestre anche dirette da altri. E a propria volta anche lei ha ricevuto in dono musicale il cognome dal marito, il grande pianista Paul Bley, conservandolo per sempre anche dopo la separazione.
Nome fondamentale il suo all’interno del catalogo dell’etichetta tedesca ECM Records, ai cui lavori si rimanda per quanto concerne la sua carriera da leader, nelle formazioni in trio e orchestra, sempre con l’inseparabile bassista Steve Swallow, suo compagno di vita dopo la separazione da Paul; per quanto riguarda la sua discografia da musicista “per gli altri” cui si è fatto riferimento, si segnalano alcune pietre miliari della storia del jazz:
A Genuine Tong Funeral – Dark Opera Without Words – del 1967, scritto per il vibrafonista Gary Burton (per il suo quartetto e la sua orchestra), di cui è opportuno riportare le parole di copertina della stessa Bley: “A Genuine Tong Funeral is a dramatic musical production based on emotions towards death”. Melodie e suoni che sono riflessioni attorno alla morte, la messa in scena soltanto musicale di un dramma che si accompagna ad un ipotetico funerale “genuino”, in cui si vivono soltanto le emozioni suscitate dall’idea della morte.
Liberation Music Orchestra, titolo dell’album e dell’orchestra a nome del contrabbassista Charlie Haden, dell’anno 1969, pubblicato dalla grande etichetta Impulse!, album di forte connotazione e contenuti politici, ispirati alle vicende e ai canti della guerra civile spagnola e alle rivoluzioni del continente sudamericano. In quest’album la Bley ha curato gli arrangiamenti dei canti tradizionali spagnoli, oltre a comparire come compositrice di brani originali e come pianista.
Ballad Of The Fallen (1983). Altra collaborazione con Haden, a distanza di più di un decennio, che rappresenta il prosieguo ideale del precedente quanto a contenuti e a forma compositiva, anche qui con arrangiamenti di traditional e composizioni originali, anche se pubblicato da diversa etichetta, la sopra menzionata ECM e con musicisti parzialmente differenti. Ne seguirà un terzo sullo stesso tema con gli arrangiamenti e la conduzione della Bley, Dream Keeper del 1990, pubblicato dalla Blue Note. L’impronta comune a questi capolavori della storia della musica è il carattere greve e solenne delle composizioni, che emerge soprattutto nelle parti di fanfare strutturate in chiave free, dall’impatto fortemente drammatico. Ripercorrere a ritroso gli 87 anni di vita di Carla, la maggior parte dei quali dedicati sempre alla ricerca musicale, sarà uno spunto per la memoria a venire.
Sergio Spampinato
Carla Bley (allmusic)
Un nuovo progetto su una lungimirante distanza quello del sassofonista e compositore newyorkese Steve Lehman, Ex Machina, album uscito il 15 novembre 2023, che prende le mosse dallo stile compositivo e improvvisativo del suo capolavoro del 2014, Mise En Abime, per proiettarsi in avanti con un organico allargato (l’orchestra sostituisce l’ottetto). La macchina assume un valore polisemico: anzitutto, quello del meccanismo propulsore dato dall’elettronica, elemento fondante nell’orchestra con il contributo dei musicisti ricercatori dell’istituto IRCAM. In secondo luogo, quello di una vera e propria macchinazione complessa di scrittura polifonica e improvvisazione. Infine, potremmo dire che la macchina, intesa come motore originario della creazione, è anche il punto finale verso cui converge l’insieme delle parti. Al centro del processo creativo idealmente non troviamo un deus, che sarebbe giocofacile individuare nello stesso Lehman, ma la tensione irrefrenabile verso un atto di creazione autopoietico, che si genera da sé. Sembra questa la concezione creativa di Lehman nella visione d’insieme e nella combinazione dei singoli elementi. Ciascun musicista percorre lo strato di un’ideale struttura poliritmica circolare concentrica, in cui il groove attraversa differenti momenti di intensità, alti o bassi a seconda della spinta centripeta o centrifuga.
I tre solisti principali di riferimento sono, oltre allo stesso Lehman con le sue rapide incursioni in una discesa senza freni sul sax alto, il sodale di sempre Jonathan Finlayson alla tromba e Chris Dingman al vibrafono, il cui suono costituisce l’impronta di rimando al precedente già citato lavoro Mise En Abime, di cui è presente qui il primo movimento di un brano, Chimera, da Chimera/Luchini. In Ex Machina però l’aspetto compositivo si spinge oltre, la scrittura orchestrale in alcuni momenti è assimilabile a quella di un’avanguardia classica, come nei due movimenti a chiusura dell’album, Le Seuil Pt. 1 e 2, anche per l’effetto elettronico di suoni generati dall’interazione di strumenti acustici. Un’opera che de-limita confini tra stili del ‘900, abbattendoli.
Sergio Spampinato
Lo scorso 22 giugno 2023 è venuta a mancare una colonna portante del free jazz europeo, Peter Brötzmann, sassofonista tedesco – principalmente tenore – che ha solcato le radici del suono degli ultimi 56 anni. Aveva preannunciato, qualche mese fa sui social per motivi di salute, la sua temporanea uscita di scena dai concerti, attività per lui frequentissima quasi fino alla fine, avvenuta dopo il compimento dei suoi 82 anni. Uno spirito e movenze da guerriero, una potenza di suono ineguagliabile, lui stesso si era dichiarato una sorta di alter-ego europeo di Albert Ayler, altro immenso sassofonista americano scomparso prematuramente, cui Brötzmann aveva dedicato un intero album monografico sulla musica, la vita e la morte, con lo storico quartetto dal nome Die Like A Dog, che comprendeva la sezione ritmica con la quale il nostro girava spesso in tour, William Parker al contrabbasso e Hamid Drake alla batteria. Con i due in trio memorabile rimane la performance al Cafè Oto di Londra nel gennaio 2015, registrata e pubblicata in vinile col titolo Song Sentimentale.
Altro storico concerto fortunatamente registrato è stato quello bolognese pubblicato nel CD dal titolo The Catch Of A Ghost con Moukhtar Gania allo strumento africano guembri e alla voce e il già citato Hamid Drake. Questo solo per ricordare due meravigliose performance degli ultimi anni, ma dal passato giungono le diverse partecipazioni ai collettivi con i più grandi improvvisatori europei costituiti in vere e proprie orchestre come la tedesca Globe Unity di cui Brötzmann fu fondatore dagli esordi nel ’67 e l’olandese Instant Composer Pool cui prese parte dagli anni ’70.
Nell’arco della lunga carriera si annoverano anche alcuni lavori in solo e in ensemble, come l’ottetto dell’album Machine Gun del 1968, agli inizi, e il progetto del Chicago Tentet del 2022. Come ricordo personale dal vivo di chi scrive vi è il concerto al festival del 2010 di Sant’Anna Arresi in Sardegna, quell’anno dedicato proprio ad Albert Ayler. Definire il suono di Brötzmann non è facile: ruvido, spigoloso, aggressivo, tagliente ma sempre profondo, intenso, sensuale, inafferrabile, non riducibile ad aggettivi. Certo è che la potenza del suono del suo sassofono rimanda ad una memoria originaria, ancestrale, non vissuta, presupposto di ogni esperienza ancora da vivere.
Sergio Spampinato
Foto di Harald Krichel
Peter Brötzmann & Han Bennink: Live Cafè Oto, Londra, 2019
La prolifica e instancabile Moor Mother – aka the songwriter, composer, vocalist, poet, and visual artist Camae Ayewa – ritorna, anche se in verità non ci ha mai lasciato un momento, con una deluxe edition, una versione estesa di quello che è stato uno dei capolavori del 2022, Jazz Codes, un album il cui titolo può sembrare fuorviante se si pensa alla musica che ne è contenuta, una rottura di codici e stilemi. Tuttavia, questa rottura avviene attraverso l’utilizzo di strumenti e fraseggi che possono essere definiti propri del jazz, sui quali sovrasta l’elettronica e lo spoken word raffinato e tagliente della leader e dei suoi collaboratori vocalist, come Thomas Stanley, il cui discorso parlato, nella diciottesima traccia, piò essere considerato un manifesto programmatico sul futuro del jazz.
In questa deluxe edition compaiono 6 tracce in più rispetto alla versione digitale e a quella in vinile, 3 delle quali erano già contenute nella versione in CD. I musicisti che suonano nell’album sono tantissimi, tra cui anche quelli del quartetto Irreversible Entanglement, di cui Moor Mother è stata punta di diamante e che l’ha portata alla ribalta internazionale, partecipando anche a un album e a un tour con gli Art Ensemble of Chicago. La poetica attraversa diversi ambiti della black music (jazz, hip-hop, soul, r&b) restituendo, con il suggello dell’elettronica di cui la giovane madre mora discendente dall’Africa è compositrice d’avanguardia, una sorta di compendio di antologia della black music e al contempo l’originalità di una musica nuova e autentica.
Sergio Spampinato
È pacifico che la figura di John Coltrane ha lasciato un’immensa eredità mai esauribile, e forse il musicista che più incarna il carattere solenne e la potenza del suono struggente, elementi tipici della musica coltraniana, è il giovane, ma ormai attivo da anni sulla scena internazionale, tenorsassofonista James Brandon Lewis. I suoi precedenti lavori, in particolare gli ultimi pubblicati dalla Intakt Records in quartetto nonché il prezioso progetto Jesup Wagon, sono saliti alla ribalta dell’avanguardia in un punto di congiungimento con lo stile più classico del jazz nel fluire secolare della black music.
Questo nuovo album, Eye Of I (il primo su Anti Records) con un gioco di parole dalla fonetica che si ripete, anche questo elemento di musicalità, rappresenta la panoramica di una visione intuitiva dell’universo che spazia dalla metafisica lirica del suono alla sua forma materiale più rude, passandovi attraverso delle ballad eseguite con un trio in cui il violoncello di Chris Hoffman sostituisce in chiave innovativa il ruolo classico del contrabbasso nella sezione ritmica, accanto alla imponente batteria di Max Jaffe. Meravigliosi i temi delle composizioni di Brandon Lewis, come anche l’esecuzione corale con l’aggiunta della tromba di Kirk Knuffke nella lieve variazione sul tema di Someday We’ll All Be Free del grandissimo Donny Hathaway. Un altro maestro omaggiato è Cecil Taylor, con la perturbante rumorosa Womb Water. La conclusiva Fear Not è un capolavoro realizzato con la band dei Messthetics, il gruppo di Joe Lally e Brendan Canty dei Fugazi con il chitarrista Anthony Pirog, anche questa una ballad struggente, ma dalla ritmica rock, in un crescendo di suoni che si espandono sulle vette raggiunte dalle note del sassofono. Non c’è molto altro da dire per lasciarsi all’ascolto di un album che rimarrà negli anni a venire.
Sergio Spampinato