DEATH IN NOVEMBER
Allah è grande ma il pop non è il suo profeta

Death In November 1
DEATH IN JUNE
Symbols And Clouds

Tutti questi giovanotti occidentali con barbe voluminose e occhiali modello Buddy Holly, a colpo d’occhio, potrebbero esser scambiati per una legione di potenziali foreign fighter, pronti a migrare in uno sperduto campo d’addestramento del deserto siriaco. E invece no, ad osservarli meglio, bevono Aperol Spritz masticando allegramente tartine 100% suino nei bar à la page del centro. La vista non se la sono giocata leggendo versetti coranici, al contrario, ci vedono piuttosto bene e, sopratutto, alla Jihad preferiscono “l’uva passa che gli da più calorie”, come recita guru Franchino il misticissimo. Ad ogni modo, nell’equivoco ci è recentemente incappata anche la polizia di Brahehus, in Svezia, che allertata per la minaccia terrorismo islamico, ha arrestato un gruppo “sospetto” di giovani hipster. L’episodio, oltre a farci ovviamente sorridere, dovrebbe anche indurci qualche riflessione d’ordine generale.

Il mondo è ancora sotto shock per il bagno di sangue che ha inondato Parigi la notte del 13 novembre scorso. L’eco sinistra della tragedia risuona ancora attraverso i mass media di tutta Europa, stagnando nell’aria con tensioni che riportano alla memoria quelle del post 11 settembre newyorkese di quattordici anni fa. Equilibri mondiali, mappature geopolitiche, economie occulte, schieramenti militari e, sopratutto, nuove fobie nel comune sentire sociale, niente pare essere più uguale dopo l’attacco di Parigi, niente tranne la pop music. Che cosa c’entra la musica in tutto questo? Un attimo di pazienza …

Mi rendo conto che dinanzi ad un dramma di questa portata i suoni che ci circondano scivolano in secondo piano, ma ciò non significa che sia impossibile imbastire un discorso che metta in relazione il contesto contemporaneo con quello artistico, e siccome qui proprio di musica ci occupiamo … L’assunto di partenza è il seguente: la forza della pop music, quando non si limita all’intrattenimento fine a se stesso, sta anche, e forse sopratutto, nel cogliere lo spirito del tempo per rappresentarlo attraverso un’interpretazione significante. Affacciarsi alla finestra che da sul mondo, per la musica pop, e più in generale per l’arte in tutte le sue forme più o meno pop(ular), non dovrebbe corrispondere tanto ad un’opportunità opzionale, quanto piuttosto a una sorta di compito-ruolo che la può caricare di valore, senso e funzione socio-culturale.

Death In November 2
MUSLINGAUZE
Abu Nidal

Ora la domanda è: lo stallo creativo nel quale versa da almeno tre lustri il pop potrà, almeno in parte, essere scosso dal terremoto messo in moto dalla crisi internazionale o, anche questa volta, prevarrà la fuga all’indietro della festicciola autocelebrativa a base di nostalgia revivalista? No, perché, pare che in certe trincee del fronte occidentale ci siano ancora, stoicamente asserragliati, alcuni valorosi ai quali ci siamo dimenticati di comunicare la fine della seconda guerra mondiale. Non so se avete presente … Mi riferisco a quel fenomeno le cui radici affondano nel post industrial di inizio anni ’80 e, più precisamente, in sigle come Laibach e Death In June. Ironici-paradossali i primi, austeri-apocalittici i secondi, sono loro che, dopo le divise mimetiche dei Throbbing Gristle, hanno fatto proprio tutto l’arsenale simbolico del secondo conflitto mondiale, iconizzandolo in una formula inizialmente molto efficace che però, nel tempo, si è cristallizzata in vuoto cliché.

Quando negli anni ’90, “l’età massima degli eroici cantori del decaduto splendore mitteleuropeo”, come direbbero quelli che ci credono, si inizia a parlare di brown area e al termine “folk” si applicano prefissi e suffissi identificativi come: “apocalyptic”, “noir”, “militay”, il quadretto è già stato adeguatamente incorniciato-codificato e la maniera la fa già da padrona. Tutti ricordiamo quanto era bello giocare con i soldatini dell’Atlantic e nessuno vuol negare che il rigore estetico, messo a punto dallo staff Riefenstahl-Boss sotto la supervisione di Goebbels, sprigioni un suo “malefico” potere seduttivo. Si vuole piuttosto sottolineare quanto, alla lunga, anche l’iconografia più evocativa o la provocazione più audace, “normalizzandosi”, si trasformi in noia e come, secondo Nietzsche, “quando guardi a lungo l’abisso, l’abisso ti guarda dentro”. E su questo, ognuno è tenuto a regolarsi come meglio crede …

Conseguentemente, nonostante appaia del tutto logico che debba essere un pero a fruttificare pere, tutti gli indizi tendono a suggerirci che in questo caso non sarà così. In realtà, chi rientra nelle categorie citate sopra, ormai, svolge i propri compitini con la diligenza del bravo scolaretto, esattamente come coloro che si dedicano ad un qualsiasi altro genere storicizzato. Dunque, come non ci possiamo attendere che una garage band rinunci ad amplificatori Vox d’annata e stivaletti “giusti”, così, è altrettanto inimmaginabile un’epurazione di rune e iconografia nazi-fascista dal corredo della brown area. I bambini, come è noto, i loro balocchi preferiti non li mollano per nessuna ragione al mondo. E forse è meglio così, altrimenti, dopo tutta la fuffa revisionista sul metastoricismo, rischieremmo di sentirci pure dire: “no, quella che ho messo in copertina non è la mezza luna islamica, è uno strumento della nostra tradizione che serve per sminuzzare le verdure del generoso suolo patrio”, o altre patetiche amenità di questo tenore.

Death In November 3
WILLIAN BASINSKI
The Disintegration Loops II

E allora, lasciamo perdere chi abbiamo capito che tanto “non ce la può fare” e ragioniamo su quello che “si potrebbe fare” o, meglio ancora, su coloro che qualcosa “l’hanno già fatta”. Sgombriamo intanto il campo dai molti che al medioriente hanno guardato in termini di pura ricerca etnomusicale o di fascinazione esotica verso un mondo misterioso e sensuale. Non sono né certi volumi della collana Real World di Peter Gabriel, né alcune, pur valide, produzioni di Bill Laswell-Material, Dead Can Dance o il capolavoro My Life In The Bush Of Ghosts a firma Byrne-Eno ciò a cui mi riferisco.

Piuttosto, in testa alla lista di coloro che hanno affrontato la questione islamica, evidenziandone gli aspetti tensivi, devono necessariamente figurare Cabaret Voltaire del visionario Red Mecca e Muslingauze, un’intera carriera consacrata alla causa palestinese che si dipana lungo il corso di una discografia-monster a base di elettronica e sonorità arabe. Oppure, si potrebbe citare il tribalismo desertico di un bell’album, dimenticato dai più, come Ghazels di Raksha Mancham. Inoltre, la straordinaria voce di Diamanda Galás ha cantato lo sterminio degli esuli kurdi e alle atrocità delle guerre e dei bambini-soldato fa riferimento anche Meira Asher, talentuosa artista israeliana, da sempre schierata contro le politiche del suo paese d’origine.

In tempi relativamente più recenti, la serie “Disintegration Loops” di William Basinski, per tutta una serie di (s)fortunate coincidenze, è stata assunta a perfetta metafora dall’11 settembre 2001. Non capita tutti i giorni di assistere, contestualmente, al più grande dramma del nuovo millennio e alla piccola tragedia della degradazione audio di un vecchio nastro in fase di trasferimento da analogico a digitale. Come se le sorti collettive ricolassero nel privato, per lasciarvici, ad ulteriore testimonianza, un segno tangibile. Un decennio dopo il crollo delle Twin Towers, Dominick Fernow, con la sigla Vatican Shadow, ha attribuito alle sue cinetiche composizioni elettroniche titoli che rimandano inequivocabilmente alla guerra del golfo e all’Islam radicale. Un’occasione di riflessione scandita a suon di incessante industrial-techno.

Venendo poi alla cronaca di questi ultimi giorni, si registrano le uscite discografiche “totalmente a tema” di due amici-colleghi particolarmente attenti nel cogliere i segni della contemporaneità. Con tempismo sconcertante, Asymmetric Warfare di Simon Balestrazzi, già a partire dal titolo, parla la lingua della stringente attualità, articolandola attraverso strutture droniche di sapiente essenzialità. Noisedelik, aka Massimo Olla, con il nuovo album, imbastisce trame elettroacustiche dalle quali emergono, come spettri oltre l’orizzonte marino, canti di muezzin e minacciose riverberazioni di Ronin. Da ricordare anche Jerusalem In My Heart, progetto del libanese Radwan Moumneh, il suo ultimo album If I Dies, If If If If If If, edito da Constellation, è stato ottimamente accolto dalla critica internazionale. Infine, non posso escludere che questo breve excursus abbia escluso qualche titolo dai cataloghi dell’harsh noise-power elecectronics, dato che in fatto di sangue e atrocità, da quelle parti, non si sono mai fatti mancare niente. A parte questo, dell’essenziale spero di non aver lasciato niente per strada.

Death In November 4
SIMON BALESTRAZZI
Asymmetric Warfare

L’ISIS, la strategia del terrore internazionale, le minacce del califfato che promette morte a tutti gli infedeli, gli attacchi armati dell’Islam fondamentalista al cuore della civiltà occidentale, le vittime, il dolore, il panico … Sono davvero così pochi gli artisti capaci di recepire e tradurre macro-segnali di questa forza e centralità politica, sociale e civile? La musica pop è affetta da autismo a tal punto da ignorare tutto ciò e perseverare stolidamente nella messa in scena dei soliti logori teatrini autoreferenziali? Nessuno ha più presente che cosa sia la catarsi e, suo tramite, quale funzione possa svolgere l’arte? E dire che di suggestioni alle quali attingere ce ne sarebbero in quantità: le milizie dell’ISIS in costumi simil videogioco-ninja e gli ostaggi occidentali in tuta arancione, le donne soldato in burqua e i loro sguardi intensi, le armi, la guerra, la devastazione sulla devastazione, il deserto, le montagne nude, il vento, la polvere e le lacrime.

Anche non calcolando tutto il pregresso storico, questi argomenti sono di pubblico dominio da almeno quattordici anni, eppure, negli effetti artistici e culturali, non si registra neppure il 10% dell’attenzione che la gravità della situazione imporrebbe. Al di là delle barbe hipster involontariamente simil-muslim e qualche kebab a merenda, non mi aspetto che il medioriente, e meno che mai il terrore, si tramuti in moda. Neutralizzare la tensione attraverso la dissimulazione estetica è chiedere troppa intelligenza e beffardo senso situazionista dell’autodifesa per una “civiltà” come la nostra che, nonostante i ripetuti fallimenti, ragiona ancora in termini di rappresaglie a base di bombe e raid aerei. Ma, fosse mai, per evitare ogni rischio e “tagliare la testa al toro”, prima che ne saltino altre per mano di Allah, forse è giunto il momento che le musiche fin qui prefigurate, anziché attenderle dal mondo, me le suoni e produca direttamente io. Siete avvertiti, da domani intendo autoproclamarmi ambasciatore nazionale dell’I.S.I.S: Ipotesi Strategie Iconiche Significanti.

Gianluca Becuzzi