AVANT(I) POP(OLO)!
La penetrazione delle musiche d'avanguardia nel contesto popolare contemporaneo
(Seconda parte)

Ryoji Ikeda

Nel precedente articolo si è detto di come le avanguardie storiche della musica novecentesca, attraverso svariate mimesi e contaminazioni, sono entrate gradualmente in contatto con la musica popolare già a partire dagli anni ’60. In questa seconda parte ci occuperemo del loro insediamento definitivo in seno alla cultura di massa, avvenuto a cavallo degli ultimi due secoli, perchè, è chiaro, le cose non sono sempre state come appaiono oggi. Sicuramente, l’inopportuna accoglienza che nel 1959 Mike Bongiorno riservò a John Cage, presentatosi come concorrente esperto in micologia (oltreché come compositore) al celebre quiz televisivo “Lascia O Raddoppia?”, oggi rimbalzerebbe, con effetti tragicomici, dai media ai social network, mentre all’epoca passò pressochè inosservata. Accadde infatti che, con quel misto di conformismo e supponenza benpensante che ha sempre contraddistinto il personaggio, Bongiorno, non comprendendo assolutamente di trovarsi al cospetto di un gigante della musica, trattò Cage con sufficienza, dileggiando le performance sonore nelle quali il maestro si produsse. Per “chiudere in bellezza” il presentatore congedò il geniale compositore augurandgli una buona permanenza in Italia e alla sua musica un rapido rimpatrio. Grottesche storie d’altri tempi.

Ma riprendendo il filo del nostro breve excursus storico … Nel corso degli anni ’90 si registrano due tendenze, tra di loro opposte, che contribuiranno alla pari a far varcare alle avanguardie l’ultima dogana: da una parte, l’emersione della cosidetta nu electronica e, dall’altra, la riscoperta di ogni tipo di musica del passato attraverso compilazioni tematiche e ristampe. Artisti e sigle come Pan Sonic, Scanner, Oval, Ryoji Ikeda, Kim Cascone, Bernhard Gunter sono i primi di una nuova generazione, destinata ad infoltirsi rapidamente, le cui musiche rimandano esplicitamente a radici avantgarde, tanto da costringere pubblico e critica a fare i conti con un passato in buona parte ancora sommerso. Con loro, la forma mentis di Brian Eno e la sua (in ambito pop insolita) attitudine concettuale-teorica vengono assunte a prassi collettiva. Ma quello che più conta, nu electronica, glitch, sine wave e laptop music vanno a coagularsi in un corpo estetico tanto distante dal pop/rock quanto interno al suo mercato, ai suoi canali promozionali-distributivi e, conseguentemente, anche al suo pubblico, o perlomeno, ad una parte di esso. Contestualmente alla “spinta in avanti” impressa da queste ricerche sonore stimolate non poco dalle nuove tecnologie digitali, nel corso dello stesso decennio, inizia ad assumere proporzioni rilevanti anche la tendenza contraria, quella cioè che vede la sovrapposizione di svariati revival con relative riscoperte discografiche. E perchè dunque, accanto al pre-war folk, al garage, al rockabilly o alla lounge/exotica d’antan, non rispolverare anche le carbonare produzioni avant e post-avant degli anni ’40/’50/’60? Tutti materiali peraltro utili a meglio comprendere le sperimentazioni artistiche all’epoca in atto. È così che, già nella prima metà dei ’90, una label illuminata come la belga Sub Rosa inaugura alcune sottoetichette specializzate in raccolte e ristampe di titoli d’avanguardia: antologie sui documenti sonori del movimento futurista, dada, surrealista e fluxus; album di compositori come Morton Feldman, Luc Ferrari, Luciano Berio, Giacinto Scelsi, Gyorgy Ligeti e molti altri. Da ricordare però, per dovere di cronaca, che alcuni titoli avant (tra i tanti di jazz e classica contemporanea) hanno sempre fatto parte anche del folto catalogo della storica e prestigiosa ECM.

Scanner

L’alba del nuovo millennio sorge ad illuminare un panorama già ben strutturato. Musiche di ricerca vecchie e nuove possono ormai contare su punti di riferimento certi. Etichette discografiche preesistenti focalizzatesi sul genere come, oltre alla già citata Sub Rosa, anche Staalplaat e Touch, o nate specificamente per accoglierlo come Mille Plateaux, Mego, la tedesca Raster-Noton di Carsten “Noto” Nicolai, Frank Bretschneider e Olaf Bender o le newyorkesi 12k/L_ine, dirette rispettivamente da Taylor Deupree e Richard Chartier, giusto per citare i leader di settore. The Wire è la rivista di riferimento internazionale per la sua capacità di armonizzare pop-rock-adult-oriented ed avant, missione che, in Italia, per qualche anno trovò un corrispettivo in Blow Up. Nei primi anni ’00 spuntarono come funghi svariati festival dedicati a queste tendenze ed, ovviamente, il web non mancò di fare la propria parte con siti, forum, mail order online, webzine e netlabel consacrate al nuovo verbo sonoro. Ci si spinse addirittura ai confini con l’arte contemporanea tout court trattando di sound art ed installazioni sonore, forme che, per complessità ed audacia, meriterebbero una trattazione a parte. Insomma, è pacifico affermare che ad inizio anni ’00 tutti i processi di assorbimento erano avvenuti là dove era possibile avessero luogo. Da allora, in realtà, su quel fronte non si registra più alcun segno di avanzamento sostanziale ed anzi, in base ad una legge non scritta, ed invero non poco stronza, ma assai diffusa tra critica e pubblico, oggi è “out” praticare le musiche di 15 anni fa, così come risulta “in” suonare-ascoltare quelle vecchie di 30 e più anni. Sì, perchè quello tra musiche di ricerca e cultura pop è un matrimonio vissuto tra luci e dombre, gioie e dolori, vantaggi e svantaggi.

Se un tempo a latitare erano le informazioni, i materiali e le occasioni d’incontro, ad oggi, in piena internet-era, il problema è, tutto al contrario, quello legato alla sovraesposizione e al conseguente rischio di banalizzazione. Mi spiego meglio … Oggi, come ieri, nelle classifiche di vendita continuano a figurare popstar del mainstream e non certo audio-ricercatori, gli stadi li riempiono Coldplay e U2, non Thomas Koner e Chris Watson, i bei cofanetti confezionati da Important Records per Pauline Oliveros e Harry Bertoia vengono stampati in tirature limitate e non mi risulta esistano contest televisivi incentrati sulla composizione contemporanea. Con questo voglio dire che, ovviamente, le musiche eterodosse dell’avanguardia e i suoi derivati occupano solo un lembo al margine della cultura popolare, rimanendo in definitiva appannaggio di una nicchia di appassionati, una minoranza che è però ben più folta ed assortita dell’esigua élite di un tempo. Nonostante questo, dove una volta si brancolava nel buio, oggi un appassionato dotato di buona cultura, anche se formatosi a suon di pop, ha perlomeno la percezione dell’esistenza di forme “altre”, non fosse che in termini puramente nominalistici; cioè, ha verosimilmente sentito parlare di musica concreta, drone, radical impro, field recordings etc. L’orizzontalità del web ha fatto molto in questo senso, basti pensare che in quel mega-database dell’editoria musicale che è Discogs, Sting, Burzum e Bernard Parmegiani (tanto per citarne tre che tra loro non hanno da spartire neppure i peli del naso) figurano alla pari, senza distinzioni gerarchiche di alcun tipo. E fin qui …

Alva Noto

Il cruccio inizia quando, andando a scavare un po’ più a fondo, sorge legittimamente il dubbio che non sia stata l’avanguardia a colonizzare la cultura pop ma piuttosto il contrario. Sì, perchè se autori come Fennesz, Tim Hecker e forse anche William Basinski, possono essere fruiti in termini prettamente suggestivo-emotivi, come si fa comunemente con i prodotti pop, è certo che approcciare Ryoji Ikeda o Alva Noto con attitudine da rave party, equivale a non aver capito cosa si sta ascoltando. Peggio ancora se ci si pone “di pancia” rispetto ad opere “di testa” che vengono da contesti storici lontani, concepite in base ad un pensiero ben preciso ed esteticamente circostanziato. Non che in questi casi sia richiesto per forza il dipoloma del conservatorio (dove, da alcuni anni, si insegna anche “elettronica e nuovi media”), ma qualche nozione specifica per acquisire le coordinate base e un po’ di sforzo di comprensione assolutamente sì. Diversamente, data la natura di certe opere, non si capisce neppure come si faccia a goderne, se non mentendo, come nel mortificante teatrino del (falso) piacere inscenato da una moglie anorgasmica. Il rischio di sovraesposizione-banalizzazione precedentemente evocato sta tutto qui, in un equivoco culturale che pone “a” sullo stesso piano di “b” solo perchè, ormai, sia “a” che “b” sono stati inseriti, a pari disponibilità, nello stesso menù globale. Un errore di ingenuità, superficialità, presunzione o di fretta consumistica, fate un po’ voi, ma pur sempre un errore. In fine, il sospetto è che le pose pro-avant di alcuni vengano dalla conquistata consapevolezza che dall’atteggiamento Bongiorno vs Cage, chi ne esce con la patente di capra è Bongiorno, ma, se posti in certe circostanze, gli stessi soggetti potrebbero tranquillamente continuar a scambiare Augusta Proietti (la moglie buzzicona di Sordi in “Le Vacanze Intelligenti”) per un’installazione artistica della Biennale di Venezia. Proprio come se il tempo si fosse arrestato agli anni ’70. Vabbeh, andiamo avant.

Gianluca Becuzzi