OUTSIDER
Cosa resta della musica sperimentale oggi?
Terza Parte

Proviamo a definire “sperimentatori di oggi” quegli artisti che, dopo il neccessario assorbimento di informazioni e relativa interiorizzazione delle stesse, si determinano in una ricerca di orizzonti espressivi autopoietici, in alternativa a ciò che si indica come “sperimentatori” secondo la definizione storico-enciclopedica. Del resto, impegnarsi in esperimenti, in qualsiasi caso, implica un lungo percorso di esperienze-tentativi e numerose camice da sudare. Per semplificare terminologicamente si potrebbe definire lo sperimentore-non-convenzionale come outsider, cioè: mosca bianca, caso a sè stante, artista essenzialmente fuori dagli schemi. Quella dell’outsider non è una scelta per niente facile. Non è difficile immaginare come e quanto la sua condizione comporti incertezza d’onore a fronte di certezza d’onere maggiorato. Chi aderisce ad una categoria-genere musicale ben codificato (accademico o extra-accademico, non fa differenza) avrà davanti a sé una filiera di riferimento già predisposta, oliata e virtualmente percorribile. Così non è per l’outsider, il quale da solo ha disegnato il proprio profilo estetico e in altrettanta autonomia dovrà trovare i canali che lo accolgano e sostengano, con tutti gli incerti che questa condizione comporta. Viene allora da chiedersi: è sperimentale, ad esempio, Tom Waits quando fonde mirabilmente le radici afro-americane con il cabaret europeo di scuola brechtiana, generando meraviglia e stilizzato lirismo? O è sperimentale l’ultimo dei nerd intento a far scricchiolare il proprio laptop con Max MSP, esattamente come mille altri suoi pari?

In fin dei conti se, per un verso o per l’altro, il risultato finale di un opera riesce a qualificarsi come imprevisto, non usuale, non strettamente derivativo, non immediatamente omologabile, possiamo dichiaralo “sperimentale” anche in base alla sua definizione originaria. Ricordate le parole di John Cage? “Un’azione sperimentale è quella il cui risultato non è prevedibile”. Se poi si va ad analizzare e scomporre gli elementi formali dell’opera di un outsider, probabilmente, dovremo riconoscere che si tratta di un incrocio tra linguaggi già noti. Un crossover a una o più vie. Del resto, la nosta è una società dedita al citazionismo, in perenne melting pot, e proprio per questo, tutti noi, siamo portati a ragionare più in termini inclusivi-sommatori che esclusivi-sottrattivi, di affermazione plurale piuttosto che di negazione imperativa. La differenza tra il sincretismo di generi che si cristallizza rapidamente nel manierismo, in contrapposizione ideale all’opera dell’outsider, infatti, non sta tanto nella scelta degli ingredienti, quanto piuttosto nella libertà creativa con la quale questi vengono cucinati. Il salto qualitativo, in definitiva, dipende tutto da una maggiore tensione identitaria, uno smarcamento dall’ansia di replica ed omologazione capace, già di per sé, di predisporre al conseguimento di risultati d’ordine superiore. Scrive Louis Ferdinand Céline: “Non ho mai rinnegato nulla, mai adorato niente, mai aderito a nulla, aderisco a me stesso finché posso. Il mio cammino ed io, è là, da solo. È il viaggiatore solitario quello che va più lontano”. Sul tema dell’outsider esiste comunque tutta una casistica multiforme, esperienze che risulteranno più chiare se le applichiamo a casi concreti. A seguire, dunque, qualche esempio. Ecco quattro nomi, che ben esemplificano il concetto di outsider contemporaneo per come è stato fin qui tratteggiato.

Pan Sonic

PAN SONIC. O dell’arte della sintesi storico-stilistica. Pan Sonic è probabilmente la sigla più importante espressa dalla musica elettronica degli ultimi vent’anni. Formatisi come trio nei primi ’90 a Turku (Finlandia), riducono presto l’organico a duo (Mika Vainio e Ilpo Vaisanen), cambiando la denominazione da Panasonic a Pan Sonic a seguito di una causa legale con l’omonima società giapponese. Nel corso della loro parabola artistica, che va da Panasonic EP (1994) a Gravitoni (2010), il duo finnico mostra, più di chiunque altro, la capacità di cogliere “lo spirito del tempo”, dando forma ad una sintesi sonora tanto significativa, quanto personale. La forza di Pan Sonic risiede proprio nella loro formulazione sincretica che allinea alla perfezione: pulsante ritmica electro di derivazione Dusseldorf-Detroit, ipnotico fraseggio iterativo mutuato da Suicide, aspro rumorismo industriale e sintesi analogica alla maniera dei pionieri novecenteschi. Esemplare in questo senso il CD-Box quadruplo Kesto (2004), una sorta di audio-catalogo nel quale convivono: larghe stesure droniche, fendenti attacchi di rumore bianco, trame ritmiche ora minime, ora sature e deflagranti. L’arte di Pan Sonic individua alcuni nodi cruciali della sperimentazione elettronica, li metabolizza e li restitusce attraverso una cifra unica, una fusione capace di annullare differenze storiche, teoriche e stilistiche. In definitiva, Vainio e Vaisanen ci forniscono un esempio concreto di come l’individualità possa generarsi dall’elaborazione sincretica di una pluralità di segni preesistenti. Un pensiero finale va necessariamente alla memoria di Mika Vainio, prematuramente scomparso.

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SCOTT WALKER. O dell’arte della crescita individuale. Statunitense, classe 1943, Scott Walker incarna alla perfezione la figura dell’outsider, tanto per come è definita quì, quanto per come viene più comunemente intesa. Il suo esordio risale a metà anni ’60 con The Walker Brothers, che riscuotono un discreto successo commerciale in Inghilterra, per poi proseguire come solista. La prima parte della carriera a suo nome ce lo presenta in veste di cantautore, dotato di una voce calda e rotonda, intento a sfornare canzoni di immediata presa sulle vaste platee popolari. Nel 1978, inspiegabilmente, Walker si ritira dalle scene, rimanendo nell’ombra per due lunghi decenni, interrotti unicamente dall’interlocutorio Climate Of Hunter (1984). Quando a metà anni ’90 torna in attività niente è più come prima. Il lungo silenzio ha trasformato Walker da “idolo pop dei teenager”, in tormentato cantore di criptiche tragedie vestite di trame sperimentali, cupe ed avvolgenti. Nel trittico-capolavoro che allinea Tilt (1995), The Drift (2006), Bish Bosch (2012), con in aggiunta Soused (2014), frutto della collaborazione con Sunn O))), la mutazione avvenuta è radicale e palese. Le musiche del redivivo Walker utilizzano formazioni ibride (strumenti della tradizione rock, orchestra, elettronica, oggetti d’uso comune) per creare “movimenti” dove lunghe stesure vengono spezzate da improvvise interruzioni, cambi repentini, pieni e vuoti, sviluppi e riprese inattese. Difficile indicare dei precedenti, la ricerca di Walker non sembra originarsi da un’analisi storica o da influenze facilmente individuabili, ma piuttosto da una riflessione solitaria, coraggiosa e sofferta che approda ad una dimensione poetica davvero irripetibile nella sua unicità. Scott Walker è outsider a tutti gli effetti perchè, ad un certo punto della propria vita, si è incamminato su una strada che lo porta lontano da tutto e da tutti, tranne che da coloro che “sanno ancora ascoltare”.

Diamanda Galas

DIAMANDA GALAS. O dell’arte della riscrittura drammaturgica. Nata a San Diego nel 1955 da famiglia d’origini greche, Diamanda Galàs merita il titolo di fuoriclasse come pochi altri nella storia recente della musica. Naturalmente dotata di una voce fuori dal comune, inizia a studiarne le enormi possibilità espressive nei ’70, ma è solo a metà del decennio successivo che, grazie ad una serie di album licenziati dalla influente Mute, il nome della Gàlas raccoglie i primi meritati riconoscimenti pubblici. Nei lavori che vanno da The Litanies Of Satan (1982) a Plague Mass (1991), i tenebrosi climi luciferini delle composizioni, uniti ad una ricerca vocale estrema, priva di cadute nel virtuosismo fine a sé stesso, rivelano un’artista capace di raccogliere consensi trasversali che vanno dal pubblico della musica sperimentale, a quello “gotico”, all’epoca molto à-la-page. La Gàlas è donna dalla personalità granitica, taglente, indomabile, “artista maledetta” che nelle sue interpretazioni, in bilico tra lucida denuncia e possessione sciamanica, scaglia anatemi contro l’ipocrisia del potere, la corruzione ecclesiastica, l’idiozia delle masse, schierandosi “dalla parte degli ultimi”: malati mentali, HIV positivi, donne abusate. Con The Singer (1992), album per sola voce e piano, si apre un nuovo importante capitolo (in parte già accennato in You Must Be Certain Of The Devil del 1988), che vede la Gàlas confrontarsi con standard del repertorio gospel-blues. Attraverso una rilettura drammaturgica totalmente inedita, la Gàlas, trasforma la tradizione in contemporaneità viva e pregnante. La sua intensa interpretazione trova una nuova chiave di lettura a quello che è da sempre il canto dei diseredati, il suono della solitudine e del dolore. Nelle sue mani, la tragedia di un popolo si trasforma in tragedia di tutti coloro che vivono “al margine” invocando equità e giustizia. Diamanda Gàlas è la voce della “serpenta” che canta la musica del diavolo, in un mondo di menzogne dove solo il rovesciamento dei ruoli usurpati può ristabilire l’ordine etico-morale, con l’umanità e per l’umanità.

Sunn O)))

SUNN O))). O dell’arte della contaminazione imprevista. Costituito a Seattle nel 1998 per iniziativa di Stephen O’Malley e Greg Anderson, Sunn O))) è, per vari motivi, uno dei gruppi più emblematici tra quelli emersi negli ultimi anni. Il duo prende il nome da una marca di amplificatori e inizia sottotraccia la propria carriera artistica scegliendo il modesto ruolo di cover band dei concittadini Earth. Ma già con la pubblicazione del debut-album The GrimmRobe Demos (2000), si profila un progetto sonoro dall’identità ben più autonoma e peculiare. In maniera progressiva e crescente Sunn O))) prendono coscienza dei propri mezzi espressivi, mettendo in atto un processo di sintesi capace di generare un ibrido stilistico mai udito prima. Attingendo alle proprie esperienze pregresse in formazioni doom e black metal, O’Malley e Anderson, portano alle estreme conseguenze il rallentamento di granitici riff chitarristici, tipici di quei generi, fino a conferire loro profondità e staticità “dronante”. Sunn O))) celebrano così un matrimonio assolutamente inatteso, ma a ben vedere del tutto congruente, tra doom metal e drone music; una formula questa che abbraccia audience trasversali, crea proselitismo e raccoglie consensi critici in ogni dove. Il legame tra metal e avant si fa con il tempo sempre più stretto, grazie anche ad una serie di significative collaborazioni (Nurse With Wound, Pan Sonic, Merzbow, Boris, Scott Walker), fino a giungere alla fusione perfetta di Monoliths & Dimensions (2009). In definitiva, il caso Sunn O))) è particolarmente rilevante, ai fini di questa analisi, inquanto dimostra la possibilità di compiere un salto non solo stilistico ma anche culturale, a condizione che si intuisca la sussistenza di un potenziale nesso sincretico là dove nessuno l’ha ancora scorto.

Gli esempi citati mostrano quattro approcci tra loro evidentemente diversi. Pan Sonic compiono una sintesi lineare, nel senso che lavorano all’interno dei paletti storici della musica elettronica. Sunn O))) costruiscono un ponte culturale tra due generi apparentemente inconciliabili. Diamanda Gàlas piega una tradizione alle proprie esigenze drammaturgiche e Scott Walker intraprende una strada solitaria dai bordi non meglio definiti. Quattro nomi, quattro diversi percorsi che conducono a fuoripista d’eccellenza. Ed in aggiunta, ecco altri due casi degni d’analisi.

MICK HARRIS. Mick Harris, nato a Birmingham nel 1967, è un eclettico percussionista e compositore britannico. La sua carriera musicale inzia a metà anni ’80 come batterista dei Napalm Death. A lui si deve sia il conio del termine grindcore, che lo sviluppo definitivo della tecnica blast beat, il groove velocissimo caratteristico del genere. Dopo l’abbandono della formazione capostipite del grindcore, Harris volta pagina fondando Scorn, inizialmente un duo condiviso con Nic Bullen, e, in perfetta solitudine, Lull. Con Scorn si dedica all’eplorazione di ritmi a bassa battutta avvolti in rifrazioni dub e lugubri ambientazioni post industrial; con Lull, al contrario, abolisce la scrittura ritmica a favore di algide vaporizzazioni atmosferiche dalla configurazione ambient isolazionista. Non pago, negli anni Harris produce numerosi dischi a suo nome, in collaborazione con altri artisti (Bill Laswell, Eraldo Bernocchi, James Plotkin, Regis etc.) e partecipa, tra i molti altri progetti in gruppo, a PainKiller di John Zorn. Da ricordare anche la straordinaria trilogia a doppia firma con Martyn Bates titolata Murder Ballads (1994-1998), dove i due rileggono la tradizionale forma popolare in chiave ambient-drone. Visto nel suo complesso, ciò che rende unico Mick Harris è la sua inestinguibile sete di sperimentazione, il coraggio di rimettersi perennemente in gioco attraverso esperienze sempre diverse, repentini cambi di rotta ed evoluzioni sorprendenti.

ROBERT HAMPSON. Chitarrista e compositore inglese, nato a Bromley nel 1965, Robert Hampson esordisce nella seconda metà degli anni ’80 alla guida di Loop, un trio dedito a sonorità iterativo-ipnotiche di ispirazione psycho-kraut. L’esperienza si conclude dopo la pubblicazione di alcuni singoli e tre album di studio: Heaven’s End (1987), Fade Out (1988) e A Gilded Eternity (1990). Il passo successivo di Hampson è quello di creare Main, un duo con Scott Dawson, sostituito più avanti da Stephan Mathieu. Nella loro prima fase Main riprendono esattamente dal punto nel quale Loop avevano lasciato, accentuando però l’interesse per la dilatazione del suono chitarristico e la decostruzione delle strutture musicali; vedi l’album Motion Pool (1994). In seguito, attraverso una graduale metamorfosi, gli strumenti tradizionali vengono sostituiti da field recordings, oggetti trovati e trattamenti elettronici. Già nella seconda metà dei ’90 il suono di Main assume un carattere d’asciutta astrazione informale, come quello degli album che, qualche anno dopo, Hampson inizia a rilasciare a proprio nome. Se andiamo ad esaminare i più recenti lavori pubblicati su Mego: Ablation (2013) come Main e Suspended Cadences (2012), Signaux (2012), Répercussions (2012) come Robert Hampson, ci troviamo immersi in un universo liquido di minimali flussi dronici processati digitalmente. Davvero affascinante osservare come, passo dopo passo, la visione sonora di Hampson muta progressivamente nel tempo, assecondando un principio tanto consequenziale nella propria logica interna, quanto stravolgente negli esiti estetici.

Nel prossimo ed ultimo articolo di questa serie, ci soffermeremo su tutta una serie di nodi problematici che offuscano l’orizzonte contemporaneo. Diremo cioè in ultimo, quali sono gli ostacoli che la musica sperimentale di oggi incontra sul proprio percorso, chi e che cosa, più frequentemente, ne inibisce la piena e corretta espressione e interpretazione.

Gianluca Becuzzi