FALSIFICAZIONI E FALSARI
Cosa resta della musica sperimentale oggi?
(Quarta parte)

Partendo da una riflessione sull’affollata scena della musica sperimentale più recente, nei tre precedenti articoli di questa serie, sono state evidenziate alcune differenze rispetto alla sua storia nel secolo scorso ed ipotizzati alcuni percorsi-letture possibili che possano relazionare passato e presente di queste esperienze artistiche. Vi ho riferito delle origini della musica sperimentale, si è detto della crisi del “nuovo” e della soluzione obliqua dell’outsider, corredandola con alcuni esempi. In una precedente pubblicazione ho trattato inoltre della sound art e delle sue potenzialità espressive in parte, forse, ancora da esplorare. Tutto questo nel tentativo di trovare un valore ed un senso all’attuale fare creativo in ambito sperimentale. Per concludere, questa volta voglio descrivervi sotto quale forma appare più frequentemente ciò che oggi si definisce come musica sperimentale e mettervi in guardia rispetto ad alcuni inganni e luoghi comuni che ne inficiano la corretta comprensione. Partiamo da due principi d’ordine generale che sistematicamente punteggiano il nostro campo d’indagine …

1) ORIGINALITÀ

Abbiamo già ampiamente parlato di ricerca identitaria, affrancamento da modelli stringenti ed autonomia estetica, tutte tensioni assolutamente “sane” ed auspicabili. Bisogna però fare attenzione a non confondere tutto questo con l’idea dell’originalità assoluta. La differenza sta tutta tra la relativizzazione dell’obbiettivo al quale tendere e la pretesa, fuor di senso, di collocarsi oltre questa misura. L’originalità in purezza appartiene solo al mondo delle idee, è un’astrazione che evidentemente non può essere sostanziata in alcun riscontro oggettivo-fattuale. Anche guardando alla storia delle avanguardie è possibile osservare come sussista sempre un nesso di relazione tra “prima” e “dopo”, tra cioè che “era” e ciò che “è”, fosse anche solo in termini di negazione, opposizione, ribaltamento. Niente si genera dal niente, anche ciò che si configura come rivoluzionario, innovativo, di rottura, alla base della sua discontinuità, contiene un nesso critico che lo collega con quanto va ad abolire. È bene sapere che chi vagheggia il 100% di originalità è vittima, o dell’ignoranza, o di risibili deliri d’onnipotenza. In realtà, “niente si origina” ma piuttosto “tutto diviene”. Si può essere “più o meno” originali in relazione ad un daterminato contesto, certo, ma l’originalità non è mai un dato assoluto, isolabile ed incontrovertibile. Solo ragionando così è possibile schivare questo falso ideologico. Insomma, quando incontrate qualcuno che vi dichiara: “Quello che suono non appartiene a nessun genere conosciuto, è diverso da qualsia altra cosa”, non esitate ad immaginarlo, una fredda notte di dicembre, in trepida attesa di Babbo Natale con tanto di slitta trainata dalle sue renne.

2) AUTENTICITÀ

Del concetto di “autenticità” ho già fatto cenno nell’articolo precedente, ma vale la pena chiarirlo ulteriormente. Su questo tema, come vi ho detto, Hugh Barker e Yuval Taylor hanno scritto un illuminante saggio intitolato “Faking It – The Quest For Authenticity In Popular Music” (in Italia “Musica Di Plastica” ISBN Edizioni, 2009) la cui lettura è caldamente consigliata. La trappola dell’autenticità, in effetti, è una di quelle che totalizza il maggior numero di vittime tra critica e pubblico. Essa consiste nell’eleggere la cosidetta “auenticità” come spartiacque e metro valoriale attraverso il quale decretare quale artista-genere meriti stima-attenzione e quale no. Inutile ripetere che, da quando pop music e musica sperimentale si sono imparentati, anche tutta una serie di “vizi” sono stati messi in condivisione e, conseguentemente, la questione investe entrambe gli ambiti. L’autenticità, intesa come corrispondenza tra biografia ed opera, vita ed arte, idealmente contrapposta all’inautenticità, alla menzogna e al calcolo d’opportunità, è una chimera, uno pseudo-valore di carattere tardo-romantico che il mercato utilizza scientemente per confezionare mitologie ad uso e consumo delle masse. Un processo che non risparmia niente e nessuno dato che, per dirla con Walter Benjamin, il contesto è quello de “L’Opera D’Arte Nell’Epoca Della Sua Riproducibilità Tecnica”, e quindi anche della sua mercificazione globale. Nell’immaginario collettivo l’artista sperimentale è rappresentato come una via di mezzo tra scenziato da laboratorio tecnologico e genio folle, stoicamente solitario ed incompreso, ma evidentemente la realtà può essere molto diversa da come ci piace immaginarla. E non è certo in base all’adesione o meno a questa immagine-stereotipo che l’opera di uno sperimentatore si può valutare in termini qualitativi. I processi attraverso i quali l’arte è capace di generare senso e sostanza, è importante affermarlo, hanno poco a che vedere con facili sogni romantici usa e getta ed idoli-iconizzati da precise strategie di marketing. Basta anche una piccola riflessione etimologica: fare-arte, arte-fare. Che cosa è un artefatto se non il prodotto, materiale o intellettuale, di un processo trasformativo intenzionale da parte dell’uomo? Diffidate di chi vi si presenta (o vi viene presentato) come artista puro e duro, eroe senza macchia che combatte solitario contro il sistema perverso. “Augh, noi uomini bianchi corrotti, tu grande capo guerriero Topo Seduto”.

Scendendo più nello specifico, è possibile individuare due posizionamenti ben distinti, i quali, ognuno a proprio modo, sono i diretti responsabili del fallimento artistico di buona parte delle espressioni sperimentali odierne. Questi due virus hanno un nome e dei connotati ben precisi. Da una parte esiste ciò che è corretto definire “sclerosi formalista”, originata sopratutto da una scorretta formazione accademica. All’estremo opposto si registra invece il fenomeno crescente della “barbarie velleitaria”, alimentata dalle micro-nicchie di un mercato sovraffollato, disorientato ed agonizzante. Vediamo, uno ad uno, di cosa si tratta.

a) Sclerosi Formalista o della Disutilità

L’eccesso di formalismo, lo sappiamo, può causare bei danni. Quella che qui chiamo “sclerosi formalista” si può manifestare attraverso tutta una vistosa serie di vizi e tick ma, di base, è riconducibile allo stesso principio: lo smarrimento del senso ultimo del “fare artistico”. Ovvero, la tragica inversione tra mezzo e fine, l’equivoco fatale che sia lo strumento (o il processo tecnico utilizzato) a decretare le sorti e il merito dell’opera. Le posture disutili della suddetta paralisi che più frequentemente ho avuto modo di osservare in questo ambito sono le seguenti.

Circondarsi in abbondanza di strumentazione costosa e ricercata, non avere idea di come utilizzarla o comunque impiegarla al 3% delle potenzialità, ma farne tronfiamente sfoggio in ogni occasione. Un mix tra feticismo-collezionismo e vano tentativo di autolegittimazione artistica.

L’impiego esclusivo dei software musicali più complessi e sofisticati, accompagnato da sommo disprezzo per tutti gli altri e commiserazione per coloro che li utilizzano. Il software d’elite per eccellenza è ormai da anni Max MSP, in troppi casi impiegato per generare suoni associabili al crepitare di un fuocherello che arde nel caminetto domestico nel momento stesso in cui è scattato l’allarme, un po’ loffio, del sistema antifurto, o poco più.

Allestire set up da studio fonologico anni ’50 con vecchi registratori a bobine modificati, nastri che girano ovunque o, in alternativa, impilare scomodissime cataste di synth modulari, con spaghetteria di cavi annessa e connessa (spesso a cazzus), per ottenere? Quello che si può agevolmente produrre con due microfoni a contatto sfregati contro il pavimento (nel primo caso), o con più confortevoli-economici synth integrati (nel secondo).

In buona sostanza questa è gente disutile, non infrequentemente munita di diploma del Conservatorio, che combatte le zanzare a colpi di cannone antiaereo, perché l’artiglieria pesante della seconda guerra mondiale è vintage, e quindi è cool. Oppure, all’esatto contrario, ostenta la complessità dei sistemi informatici messi in campo, con la stessa spocchia che il Marchese Del Grillo mostrebbe vantando il proprio sangue blu. Tutto questo affannarsi per niente rappresenta, nel contesto (pseudo)sperimentale, il corrispettivo di certo virtuosismo strumentale, tendente al circense, tipico dell’universo rock più scadente. Insomma, un campionario di vane coglionate entropiche.

b) Barbarie Velleitaria o del Baldronismo

Alzarsi una mattina, imbattersi per caso in un video di Merzbow su Youtube e pensare: “Potente, questo lo posso fare anch’io”. Dopo due settimane: piantare il gruppo black metal (che tanto presentarsi a una prova sì e quattro no, per poi dover pagare l’affitto della sala prove non conviene). Vendere il basso, con il ricavato comprare un minuscolo synth Volca (che costa una minchia e vale altrettanto, ma tanto con due-distorsori-a-palla va alla grande), continuare a tatuarsi e a non lavarsi i piedi. Dopo due mesi: pubblicare sulla tape-label di un amico, la prima cassettina del nuovo progetto harshnoise “Necroanal Nazispasm” (N.N. per gli amici). Ed è subito capolavoro per la webzine “Elektro Diarrhea”. Iniziare a presentarti in giro come noiser e sperimentatore estremo, dispensando pareri e consigli da specialista del settore. Continuare a coltivare la barba simil-muslim e a non lavarsi le ascelle.

Ecco in breve l’identikit del barbaro velleitario tipo, ma ovviamente esistono anche altre variazioni sul tema del baldronismo, comunque connotate dal connubio ignoranza più presunzione più scorciatoie. Essenziale conoscerlo al fine di evitarlo. Ma è più semplice a dirsi che a farsi. Complice l’ignoranza diffusa, la smania di protagonismo a tutti i costi e il presenzialismo digi-mediatico, il fenomeno è in crescita e va ad incrementare una massa critica che preme dal basso creando confusione e malintesi nei meno avveduti. Non si sa se addossare la responsabilità morale più a X-Factor (versione fogna) o ai celebrerrimi “15 minuti di notorietà per tutti” di warholiana memoria, fatto sta che l’epidemia si sta trasformando in pandemia, con le disastrose conseguenze del caso. Sembra “una cosa da ragazzi” ma sottovalutarla, col tempo, potrebbe causare dei danni irreparabili. Tra l’altro il baldrone non si autoproclama solo artista-sperimentatore, ma è capace di presentarsi come addetto ai lavori a qualsiasi titolo: label manager, organizzatore-promotore di eventi, giornalista-critico etc. In questo modo si crea un’intera rete di barbarie velleitaria che si alimenta e sostenie mutualmente. A rendere il quadro particolarmente ambiguo c’è poi il fattore economico. Ovvero, essendo tutto il settore sperimentale poco redditizio, non è sempre possibile riconoscere i meriti in base allo status professionale, come accade altrove, dato che solo pochi riescono a fare della propria attività artististica il lavoro del quale vivere. Capita così che, loro malgrado, artisti talentuosi e baldroni si trovino a nuotare, uno accanto all’altro, nel medesimo piccolo acquario.

In buona sostanza, sia che si tratti di disutili o baldroni, di sclerosi forrmalista o di barbarie velleitaria, siamo al cospetto di falsificazioni messe in atto, con o senza consapevolezza ha poca importanza, da veri e propri falsari. Io vi ho allertati, poi, di caso in caso, vedetevela un po’ voi …

Siamo così giunti al termine di questa riflessione in quattro parti sulla musica sperimentale odierna. Mi auguro che mettere bianco su nero tutta una serie di ragionamenti, elaborati in base alla mia esperienza personale, possa esservi stato di stimolo e chiarimento. Ma sopratutto, considererei un ottimo risultato se a qualcuno di voi, a seguito della lettura, fosse venuto il desiderio di scoprire (o riscoprire) certe musiche, per farne esperienza attraverso un ascolto che le riconsideri in una diversa prospettiva. Non sarebbe poco perché se c’è un ruolo di fondamentale importanza che non deve mai rimanere scoperto, questo è proprio quello che riveste l’ascoltatore. E l’ascoltatore può definirsi tale tanto più è appassionato, curioso, consapevole ed informato. Non esiste suono, non esiste musica e non esiste nessun esperimento possibile senza l’atto dell’ascolto. Non dimenticatelo mai.

Gianluca Becuzzi