SONO APPARSO A DAVE GAHAN
Fenomenologia della megastar da stadio

Giudicare esclusivamente in base ai numeri, quando il soggetto è l’arte e la musica, è una prassi da ignoranti. Infatti, sono due miserie speculari tanto quella di chi “deve per forza” andare ad un concerto con altre 100.000 persone, quanto quella di chi, al contrario, non comprerebbe mai un disco che supera le 1000 copie di tiratura, perché guai a confondersi con la massa pecorona. In entrambe i casi sfugge completamente il fatto che, comunque la si voglia conteggiare, la quantità non certifica mai niente a proposito della qualità. Doverosa premessa a parte, in questo frangente però, ci occuperemo solo del primo caso, ovvero, di quei contesti dove la musica muove grandi numeri e, ancora più precisamente, di quando questo avviene in occasione di mega eventi-concerti di superstar capaci di gremire interi stadi. Il riferimento va dunque a sigle internazionali ad oggi popolarissime come: Metallica, Depeche Mode, U2, Radiohead, Madonna o a casi nazionali eclatanti come Vasco Rossi e Ligabue.

Bono Vox

Probabilmente devo arrendermi all’idea di essere un sociologo mancato, dato che non ce la faccio proprio a restare indifferente a certi fenomeni di massa, indipendentemente dall’interesse musicale per il caso di volta in volta in questione, il cui grado, spesso e volentieri, rasenta lo zero assoluto. Eppure, al di là del personaggio e delle sue canzoni, che non mi hanno mai riguardato, c’è qualcosa di palesemente epico e terrifico nel concerto-celebrazione di Vasco Rossi che si è consumato, in un delirante oceano umano, il 2 luglio scorso al Modena Park. 220.000 fan accorsi da ogni dove, isteria collettiva, l’intera regione Emilia Romagna paralizzata per due giorni. Diretta televisiva su RAI 1 che inchioda allo schermo una nazione con il 36,14% di share, per un totale di 5.633.000 spettatori di media. Come non vagheggiare, di fronte ad uno spettacolo così, un esodo di proporzioni bibliche con tanto di flagelli e piaghe d’Egitto annesse? Certo, quello di Modena è davvero un evento record, ma anche riempire tre stadi di calcio, a Milano, Bologna e Roma, come hanno fatto i Depeche Mode nella loro ultima discesa in Italia, non è certo impresa da tutti. Resta comunque il legittimo sospetto che le motivazioni che muovono molti riguardino poco la musica, che questi eventi rappresentino, anche e sopratutto, un’occasione di emersione dalla routine quotidiana, alla ricerca di un impatto stordente-elettrizzante con una diversa dimensione del reale. Ma comunque la si voglia vedere, è di tutta evidenza che questi sono gli ultimi soggetti ancora capaci di muovere masse umane e capitali attraverso la musica. Gli unici a segnare un dato rilevante, in termini sociali ed economici, a fronte di un mercato da tempo in profonda crisi. Cosa potrebbe accadere se domani questi dinosauri si dovessero estinguere non è dato sapere. Quello che invece possiamo tentare di comprendere e analizzare, è l’apparato fenomenologico che connota questo ambito specifico, e con ciò, portare alla luce alcuni suoi meccanismi interni.

Metallica

Scorrendo in rassegna il catalogo milionario delle megastar da stadio, salta subito all’occhio come nella stragrande maggioranza dei casi si tratti di nomi con una lunga carriera professionale alle spalle, veterani dello showbiz che possono vantare da un minimo di due decenni di attività in su. Bob Dylan suona da cinquanta e passa anni ed altrettanto totalizzerebbero i Rolling Stones se, come annunciato, dovessero salire nuovamente su un palco. Più frequenti gli act quasi quarantennali o abbondantemente trentennali. La gerontocrazia dei massimi livelli dello star system si regge prevalentemente su una ragione piuttosto semplice, riassumibile nel concetto di “mito vivente”. Un principio che, con l’adeguato lavoro di marketing, tanto più stagiona, tanto più rafforza il suo effetto suggestivo. A questi livelli, pochi sono coloro che abbandonano le scene ancora in “stato di grazia” come hanno saputo fare i REM. Più comune assistere invece al processo contrario, cioè alle reunion, più o meno estemporanee, di vecchie glorie del passato, con gli esiti non di rado poco decorosi che ben conosciamo. Nella fisiologia di questi organismi non-più-giovani, il metabolismo discografico è rallentato e mediamente produce un-album-due-singoli ogni 4/5 anni. Questo non costituirebbe un problema se i contenuti si mantenessero all’altezza delle aspettative o, quantomeno, trattandosi di pop music di largo consumo, se i singoli possedessero l’appeal dell’immediatezza, se i ritornelli girassero efficacemente al primo ascolto e via dicendo. Ecco, questo è esattamente l’obbiettivo che la quasi totalità delle superstar, dopo un tot di anni di onorata carriera, non riesce più a centrare. C’è chi non sforna più una ciambella con il buco da 10 o 15 anni, chi da 20. Dolori? Imbarazzi? Scrupoli? Macchè, si parte in world tour con una scaletta costituita all’85% da vecchi cavalli di battaglia e via, che tanto le platee sono sempre gaudenti, con accendini levati in aria e cori roboanti sul verso memorabile. Sì, ma se le regole del gioco sono queste, nella sostanza, cosa troveranno sul palco quelle platee? Semplice, l’idolo del quale hanno acquistato il non-economico biglietto che, in buona sostanza, si è settato in funzione self-cover-tribute.

Madonna

Quando dico che certe magastar da stadio sono tribute band di sé stesse, non mi riferisco tanto al fatto che suonano, una dopo l’altra, le care vecchie hit, quello è normale, lo farebbe chiunque al posto loro. Mi riferisco piuttosto all’evidente gap creativo che c’è tra il repertorio storico e il nuovo. È quello essenzialmente che li qualifica come, e fornisce la misura precisa di quanto, si tratti di persistenze fantasmatiche. Di solito, esperienza e mestiere consentono una “tenuta sul palco” professionale, certo. E poi, si sa, alle loro spalle ci sono mezzi-attrezzature e staff tecnico di livello superiore. Infatti, difficilmente il deficit è di ordine formale, ma piuttosto sostanziale e si palesa nello scollamento tra attore e testo. Uno sguardo lucido coglierebbe subito la distanza che il tempo ha creato tra l’opera portata in scena e il suo autore. È il calo di ispirazione e l’evaporazione della spinta motivazionale ad esser rappresentate sotto quei riflettori. Non che debba essere facile, anno dopo anno, per decenni, sfornare hit per contratto. Come sappiamo, con il passare del tempo i rapporti umani all’interno di una band si logorano, aumentano le pressioni esterne: discografici, manager, media, pubblico e mantenersi efficacemente in equilibrio è sempre più difficile. Madonna dovrà individuare ogni volta un produttore artistico abile quanto il suo chirurgo plastico. Gli U2 difficilmente riusciranno a scrivere un’altra Sunday Bloody Sunday o una nuova With Or Without You con Bono Vox perso nel ruolo del profeta munifico. I Metallica sono quattro milionari di mezza età con il gravoso compito di rappresentare la massima icona del metal agli occhi di nostalgici e ragazzini del pianeta terracqueo. Bruce Springsteen deve risultare credibile nel ruolo di ambasciatore folk rock della working class statunitense, in barba allo strabiliante conto in banca. Eppure, nonostante tutto, stiamo parlando di trademark che continuano ancora a produrre fatturati di tutto rispetto. Macchine da spettacolo che una volta messe in moto sono capaci di spostare masse umane altrimenti impensabili. Perché? Come può accadere? Per capire come la magia possa ancora compiersi bisogna, a questo punto, girare i riflettori della nostra analisi in direzione del pubblico.

Dave <Gahan

Da più parti e a più riprese, sociologi e studiosi del costume, hanno tracciato analogie e corrispondenze tra la mitologia classica e il mondo dello spettacolo contemporaneo. Secondo queste teorie il ruolo sociale degli idoli musicali, degli atleti più celebri, e delle star di cinema e televisione, avrebbe più di un punto di contatto con quello svolto dagli Dei pagani e dalle figure mitologiche nelle civiltà antiche. In questo senso ogni superstar di oggi occupa simbolicamente un proprio posto nell’Olimpo dello spettacolo, dove manager e procuratori rivestono il ruolo di vestali. Ad esempio, si potrebbe ipotizzare che i Depeche Mode siano gli Dei-custodi del sacro fuoco degli anni ’80. Marylin Manson deve invece presiedere a qualche oscuro culto infernale, così come le figure più avvenenti sono la versione aggiornata di Venere e quelle più trasgressive di Dionisio. Fatto sta che l’adorazione cultualistica è di per sé un atto di fede e, come tale, prescinde da qualsivoglia costrizione logico-razionale. Se la devozione antica era indotta per via iniziatica, verosimilmente, quella attuale passa attraverso la massiva promozione mediatica di un dato prodotto-brand sonoro. Questo spiega sia perché il fan (che non a caso è contrazione del termine inglese “fanatic”) è costituzionalmente privo di attitudine e strumenti critici, sia come non possa che rispondere alla chiamata, quando intorno ad un dato evento viene costruito ad arte il giusto hype. In fin dei conti il fan somiglia molto più al talebano radicale o al tifoso di calcio, piuttosto che al vero appassionato di musica e arte. Infatti, come non è in base al bel gioco o ai risultati agonistici che il tifoso sostiene la propria squadra del cuore, alla stessa maniera, il fan non muterà l’atteggiamento devozionale verso il proprio idolo in funzione della qualità che esso è in grado di esprimere. Si tratta di posizionamenti rigidamente acritici, presi una volta per tutte e mai più sottoposti a revisione. Anche se occorre notare come, dove la sconfitta della propria squadra genera invariabilmente un inconsolabile sconforto nel tifoso, il live più catastrofico non potrà che ingenerare, sempre e comunque, entusiasmo, nel suo stolido corrispettivo musicale. E quindi, alternativamente, tutti allo stadio, che si qualifica come il luogo ideale, non solo in termini di capienza.

Infine, anche se, come abbiamo detto, ogni stella pseudo-divina rappresenta simbolicamente qualcosa di diverso dalle altre, alla fine, le stordenti cerimonie a base di migliaia di corpi madidi di sudore, finiscono per somigliare tutte ad orgiastici baccanali sovradimensionati. E proprio come in un rituale pagano, gli intervenuti partecipano collettivamente di un’esperienza dove, alla divinità, si chiede di trasferire i propri poteri dall’alto al basso. Ad una lettura razionale-atea, invece, non c’è nessun Dio e le energie che si sprigionano sinergicamente vengono generate direttamente dalla psiche dei singoli individui. È solo una questione di disposizione. Questo è esattamente ciò che avviene anche ad un concerto dei Depeche Mode. Sul palco ci sono uomini sazi e stanchi che hanno perduto il potere creativo di un tempo, la sacra fiamma non arde più in loro. Anche quando tornano a formulare l’abracadabra che li aveva deificati, gli angeli e i demoni non li odono, quegli spiriti ultraterreni abitano invece nelle anime ferventi del loro pubblico; solo da lì possono sorgere e solo lì possono agire magicamente. Il rovo ardente non si sviluppa sul palco ma in platea, che è il vero santuario della visione mistica. Ecco perché il fan più incondizionatamente devoto al culto DM, rincasando stremato e felice, dopo un mega concerto, con lo zaino Invicta in spalla e le Nike infangate ai piedi, può a pieno titolo proclamare raggiante : “Mamma, mamma! Sono apparso a Dave Gahan”.

Gianluca Becuzzi