TIFO PANDEMICO
Fenomenologia dell'ultrà musicale

Frequentavo ancora le scuole medie inferiori. Sì, era un po’ di tempo fa, la volta che partecipai alla festa di compleanno che un compagno di classe aveva organizzato a casa sua. All’epoca Mc Donalds neppure si sapeva cosa fosse. A quel party a base di patatine, Fanta e gomme da masticare attaccate sotto i divani in velluto marrone era presente, tra gli altri, una ragazzetta della seconda B che aveva acceso la mia acerba, e per questo pressochè sguarnita, immaginazione erotica da “deserto dei tartari”. Inaspettatamente, la ragazzetta mi si avvicinò e sparò a bruciapelo: “Quale musica ascolti?”. Lei era una fan di De Gregori e Dylan, oggi lo avrei capito al primo sguardo, allora no. Io, invece, ero molto più sensibile all’estetica dei soldatini Atlantic e alle fughe in bici-cross piuttosto che alla musica. Così mi lasciai sfuggire avventatamente: “Suzi Quatro”. Risposta sbagliata, fine della storia, in tutti i sensi.

C’è stato un tempo, protrattosi perlomeno per tutti gli anni ’70 e forse oltre, nel quale la popular music aveva il potere di plasmare la cultura giovanile e l’immaginario collettivo con tale pregnanza da costituirne un tratto identitario imprescindibile. Essere per la conservazione rockers o per l’evoluzione mod, tenere per i Beatles o per gli Stones, sventolare la bandiera glam o quella progressive, sentirsi riottosamente punk o edonisticamente disco, selvaggiamente heavy metal o aristocraticamente new wave, corrispondeva a posizionamenti precisissimi e tra loro profondamente diversi, anzi, più spesso conflittualmente antitetici. Per questo chiedere a qualcuno: “Quale musica ascolti?”, come aveva fatto con me la ragazzetta della seconda B, equivaleva a domandare: “Chi sei? Qual è il tuo pensiero? Cosa ti rappresenta?”. La diffusione di massa della musica la rendeva il soggetto ideale per un test di prima conoscenza personale, dato che ad essa si attribuivano valori e significati culturali che andavano oltre l’espressione del gusto estetico o la semplice scelta di costume. Certo, anche indagare sui gusti letterari, cinematografici o artistici avrebbe potuto fornire informazioni altrettanto utili, eppure, la prima voce del questionario era puntualmente quella. Come se dalle scelte musicali si potessero ricavare deduttivamente tutta un’altra serie di dati: “Qual è la tua fede? Che partito voti? Qual è il tuo orientamento sessuale? Ti piace più la campagna o la città? Il dolce o il salato?”. A conclusione dell’indagine esplorativa si tiravano le somme: “Vuoi essere mio amico?” vergare la casella “Sì” se positivo, “No” se negativo. Nella variante: “Vuoi metterti con me?” si aggiunga la casella “Devo Pensarci” del caso dubitativo.

Oggi non è più così, la musica ha perso di centralità e peso, è di tutta evidenza. La domanda “Quale musica ascolti?” non si propone con la stessa frequenza, potrebbe giungere esima, o anche mai e, in ogni caso, ha smarrito buona parte del significante al quale un tempo sottendeva. Le generazioni del nuovo millennio, e non solo loro, comunicano la propria identità attraverso segnali diversi, essenzialmente marchi, tecnologie e altri beni di consumo. Sono cani che per riconoscersi non si fiutano più il culo ma il collare. La ragione per la quale il culo della musica popolare non profuma più come un tempo, e conseguentemente un po’ di disorientamento forse lo si può pure giustificare, ve l’ho già riferita nel dettaglio in altri miei articoli. C’è però un dato che apparentemente contraddice quanto fin qui sostenuto, ma che in realtà, lo vedremo, non solo lo conferma, ma addirittura definisce ed incornicia con precisione il quadro contemporaneo. A chi non è mai capitato di imbattersi in accese discussioni che degenerano in vere e proprie risse verbali, sui social network, nei forum, in spazi pubblici e privati, a causa di opinioni divergenti su quel tal artista o qella talaltra band? Accade pressoché tutti i giorni: con lo sguardo ancora velato dal sonno, il primo caffè fumante della giornata in mano, fai log in su Facebook e in commento ad un post musicale pubblicato da un tuo contatto, assisti al furibondo divampare polemico di un incendio, che neppure quello di Chicago del 1871 … X ha avuto l’ardire di dichiarare pubblicamente che quella popstar l’ha sempre detestata e Y reagisce come se X avesse leso l’onore di sua madre e della parentela tutta. Da lì in poi si scatenerà una guerra tribale che vedrà schieramenti opposti prendere le parti dell’uno o dell’altro, fronteggiandosi virtualmente a suon di epiteti tanto livorosi, quanto palesemente inadeguati a risolvere la querelle iniziale.

Dunque, si dovrebbe concludere che la musica ha ancora oggi un potere identitario tale da scatenare il risentimento di chi, suo tramite, si senta leso nell’integrità della propria persona? Macchè, le reazioni emotive alle quali assistiamo sono generate da una forma mentis molto più prossima, se non direttamente coincidente, a quella propria delle tifoserie calcistiche. In un tempo dove, per i più, la musica è un mero intrattenimento e non più un codice culturale effettivo, il vero appassionato, cosciente della marginalità nella quale è relegato, affronterà un confronto dialettico in tutt’altri termini. Mentre, al contrario, il furor cieco, è indice di posizionamenti irrazionali-aprioristici, presi una volta per tutte e mai più sottoposti a revisione critica. Il fideismo integralista è, per definizione, altro dalla ragione. Del resto, perchè si adotta una bandiera piuttosto che un’altra e come si sceglie di essere cattolici piuttosto che buddisti o musulmani? Per quale motivo si tifa Roma, Juventus, Real Madrid o Chelsea? Cosa determina un atto di fede se non una contingenza endemica? La sensazione che riparare sotto il tetto più prossimo sia assai più sicuro e confortevole che rimanere da soli a fronteggiare le squassanti tempeste della vita? Ricordo ancora che, a otto anni, io stesso mi dichiaravo interista unicamente perchè il mio compagno di banco diceva di esserlo. Col tempo, però, la mia posizione divenne sempre meno sostenibile, dato che le interviste a Sandro Mazzola (ricordate la voce che aveva?) mi scatenavano crisi di riso meno violente solo di quelle procuratemi dalle interviste a Gustav Thoeni e, conseguentemente, fui tacciato d’eresia ed espulso, cioè, costretto a cambiar banco.

Ciò che avviene all’interno del fan club di una popstar, per origini, dinamiche ed esiti, non è poi così diverso da quanto avviene nel fan club di Gesù Bambino e di Scientology, dell’Inter e dell’Atalanta, di Topolino e di Hello Kitty, del veganesimo e dello schifismo ad oltranza. In ogni caso si lascia la testa sul comodino e si parte con l’Armata Brancaleone per le crociate. Si creano miti e si edificano santuari da difendere con ogni mezzo, tranne che con la ragione, la riflessione e il confronto dialettico. L’analisi critica di situazioni complesse comporta un esercizio continuo, un costante lavorio intellettuale. Molto più facile abdicarvi abbandonandosi allo svacco, affidare l’autorappresentazione di sè ad una causa di branco, al bieco ed infame tifo da ultrà. A dirla tutta, anche la politica dei nostri tempi risponde largamente a questa descrizione, perchè è chiaro che, dove il contenitore si svuota di valori ideologici e coscienza del proprio ruolo, ciò che resta non può cadere molto lontano dalla curva sud dello stadio. Qualcuno obietterà che il talebano è un esaltato che con la religione ha poco a che spartire, che l’ultrà molesto è antisportivo e che il fanatico musicale non è un vero appassionato di musica. Tutto vero, ma quanti sono? Vogliamo ragionare anche in termini quantitativi-numerici o pensate sia un dato trascurabile? Vale la pena di ricordare che lo struzzo, quando nasconde la testa sottoterra, lascia pericolosamente il culo in aria, o no?

Portando alle estreme conseguenze il ragionamento, da innamorato dell’arte e della musica, posso anche arrivare nichilisticamente a fottermene se il parlamento è una lurida tana di squallidi sciacalli, se allo stadio si tradisce lo spirito sportivo spaccandosi vicendevolmente la testa a sprangate, se il Vaticano è una latrina morale imbrattata di maleodoranti ipocrisie secolari e le altre confessioni monoteiste non sono migliori. Non voto, non tifo, non prego. Non posso però fare a meno di frequentare la musica. E lì sì, la barbarie mi tocca, perché se c’è qualcuno che si agita troppo, per quanto io tenti di tenermi sempre a debita distanza, sgomitando potrebbe cogliermi in faccia. E poi, diciamolo, questa confusione demente tra arte ed agonismo o tra arte e numeri da circo è davvero intollerabile. “La competizione è per i cavalli, non per gli artisti” diceva il maestro Bela Bartok. È importante non fare confusione. Tutte le forme d’arte vivono di un equilibrio delicatissimo tra ragione e sentimento, intelletto ed emotività, testa e pancia. Approcciare la musica come fosse un algido esercizio puramente cerebrale è inappropriato, tanto quanto lasciarsi travolgere dalla sua corrente sentimentale fino all’annegamento. Nel primo caso, l’esito sarà l’anorgasmia estetica, nel secondo una qualche forma di delirio isterico alla deriva dell’igiene mentale. Bisogna capire bene fin dove è ragionevole abbandonarsi all’irragionevolezza, al fine di godere pienamente dell’opera e dove, al contrario, servono delle reti atte a catturare tutti i segni necessari a sistematizzare correttamente l’opera stessa e così coglierne compiutamente il senso.

Il tifo pandemico che esonda dai bordi di uno stadio per farsi metodo infame che inonda altri campi, viaggiando disastrosamente per miglia e miglia, è un vero flagello. Col suo volgare flusso alluvionale tracima via case e ponti, uomini e capre, merda e oro, senza fare prigionieri, come si trattasse di una cosa sola di pari valore e dignità. Forse è tardi per pianificare interventi di pubblica salvaguardia, o forse no, non lo so. Quello che però spero dal più profondo del cuore è che esistano ancora uomini e donne capaci di erigere, dentro di se, dighe sufficientemente solide. Una risorsa che possa trarre in salvo ciò che ancora, dell’arte e della musica, si può salvare. Se poi fosse utile alla causa, potremmo anche piantarla di spararci compulsivamente selfie, per riprendere a fiutarci reciprocamente il culo. Brutto e sbagliato di sicuro non sarebbe.

Gianluca Becuzzi