GODFLESH
(Roma, 4 maggio 2018)

La serata di ieri, per il sottoscritto, non inizia benissimo: per una volta che in apertura suonava un’amica (sorry Dalila & SYK) me la sono persa, arrivando tardi. La sala, di dimensioni medio-piccole, è piena per tre quarti, la fauna è pressoché tutta maschile e a questa “fiera della fava” metropolitana sembra essere ammessa giusto qualche donzella rigorosamente accoppiata e qualche puella che di femminile ha forse giusto il nome sulla patente. Come non di rado a Roma, la serata è appannaggio del popolo metallaro: calzoni corti, maglie di band ed ipertricosi non mentono, ma per fortuna che ci sono loro alle serate capitoline che altrimenti rischierebbero di andare per metà deserte. Sul palco J. Broadrick e G.C. Green danno vita ad un set basato sull’ultimo ottimo Post Self, con una resa purtroppo ondivaga: flessioni e riprese caratterizzano tutti i 50 minuti della performance (zero bis). Da un live set del genere è legittimo attendersi una percezione fisica, tattile, dell’impatto sonoro che purtroppo è stata avvertita solo dalle prime due file, dalla terza in poi un calo netto di potenza e suoni sporchi e impastati, difficili da apprezzare al meglio. Il difetto, temo, è da imputare soprattutto a qualche defaillance dell’impianto audio ma anche al troppo materiale messo in base che ha reso l’esito eccessivamente denso, poco dinamico, in definitiva confuso. L’esecuzione tecnicamente corretta e la professionalità dei due sul palco, insieme alla compiutezza dei brani, sono da annoverare fra le componenti positive di un concerto nel complesso buono ma, mi duole dirlo, non indimenticabile. Tra le imperdonabili pecche la scarsa cura della parte visiva, con proiezioni formato francobollo su uno schermo gigante (ma che senso ha? Alla larga miopi!) e presenza scenica pietosa di Broadrick: vestito da imbianchino, capello lungo da cockerino non tolettato, postura geriatrica e appeal da vongola (se era uno slancio di consonanza con gli astanti gli è riuscito bene). Chiosa di rito sulla toilette: unica e unisex, total black e adesivi stile post ’77, praticabile solo con anfibi perché pisciata fino all’altezza delle caviglie. Resta da chiedersi che fine avranno fatto i due tipi di sapone in dotazione, data la popolazione del locale non troppo versata all’igiene personale. Che un solo flacone non fosse sufficiente a detergere la “Carne di Dio”? Ai post-self-posteri l’ardua sentenza.

Gianluca Becuzzi