IGGY POP
“Free”
(Loma Vista, 2019)

Free si presta come titolo a molte interpretazioni, a cominciare dalla significativa e suggestiva foto di copertina. Per rimanere con i piedi per terra bastano un paio di ascolti di questi dieci brani (poco più di una mezzoretta) per ipotizzare seriamente che Iggy Pop voglia riferirsi ad una dimensione precipuamente musicale. Non è certamente la prima volta che l’artista settantaduenne rincorre in studio una coraggiosa libertà espressiva, ben distante dall’ortodossia rock dei suoi repertori storici sfoggiati nella sua praticamente ininterrotta attività live. Nei duemila aveva già clamorosamente lasciato a intendere di volersi svincolare da clichès e ruoli forzati, in dischi come Preliminaires (2009) e Après (2012), nei quali esplorava e rivisitava la canzone d’autore internazionale (soprattutto francese) del ventesimo secolo. Nel 2016 a questi due esperimenti per Iggy decisamente non ortodossi aveva fatto seguito in studio Post Pop Depression, riaffermazione orgogliosa di un rock integerrimo, variegato, intriso di stoner e hard moderni figli del ventesimo secolo, frutto della collaborazione con il chitarrista/compositore Josh Homme dei Queens Of The Stone Age. A dirla tutta comunque già da Avenue B (1999) Iggy aveva imboccato la strada del balladeer più che maturo, dalla voce profonda e cavernosa.

La libertà artistica ed espressiva a lungo inseguite raggiungono in Free un target di sapore ambient e jazz davvero elevato e ispirato, allineato a tratti – come qualcuno ha giustamente accennato – con quello bowiano sublime di Blackstar, messo a punto prima di lasciarci. Iggy Pop ha chiamato quali grandi protagonisti di Free accanto a sé il trombettista/compositore texano quarantenne Leron Thomas e la chitarrista/compositrice Sarah Lipstate-Noveller (ai guitarscapes), che firmano gran parte del materiale. Dall’ambient dell’iniziale title-track alla rarefazione della sublimata Sonali e della finale recitata The Dawn sono proprio della Lipstate (e dell’altra chitarrista Ari Teitel) i desolati paesaggi sonori che accompagnano i tenebrosi e “vissuti” talking di Iggy (una costante dell’ultima parte dell’album) che in Free e Do Not Go Gentle Into That Good Night sposano i versi ribelli dello scrittore gallese Dylan Thomas, vissuto nella prima metà del ‘900, morto alcolista giovanissimo. In We Are The People invece ad essere evocate sono le liriche di Lou Reed, un altro grandissimo che non è più con noi.

Ad essere impregnati dei pregiati soli jazzistici della tromba di Leron Thomas sono un po’ tutti i brani, così come è jazz (e non rock) il mood prevalente del disco. Alcune bellissime eccezioni: la teutonica Loves Missing che pare provenire direttamente dai solchi della produzione bowiana berlinese di The Idiot, l’accattivante incedere di James Bond – che volendo potrebbe diventare una The Passenger in tono minore del ventunesimo secolo – e la spagnoleggiante piccata Dirty Sanchez. Altrettanto teutonicamente fredda e inquietante Glow In The Dark, confortata nella seconda parte da uno strabiliante solo con la sordina della tromba di Thomas. La confessione esistenziale di Page sigilla, gonfia dei caldi vibrati vocali senili di Iggy, un lavoro che, se non si fa professione pedante di ortodossia da fans seriali, riserva grandi e calde sorprese.

Pasquale Boffoli