TRENTEMØLLER
“Obverse”
(In My Room, 2019)

A tre anni di distanza dal capolavoro Fixion, omaggio alla new wave inglese di Cure, Siouxsie & The Banshees e Joy Division, il polistrumentista, produttore e sound designer danese Anders Trentemøller, torna alla ribalta con Obverse, un lavoro di ricerca sonora che, se da un lato abbandona l’immediatezza melodica e il romanticismo epico dell’album precedente, dall’altro scandaglia ed esplora più a fondo direzioni strumentali inattese, che tendono ad esulare dalla tradizionale forma-canzone per espandersi in vere e proprie suite impressioniste. Con la rilassata sicurezza di chi sa di non dover più dimostrare o concedere nulla, contando su una fedele fanbase dalla sensibilità emotiva e intellettuale, ineluttabilmente tinte di dark, l’artista fa il suo ritorno sulle scene.

Frutto di un certosino lavoro solista rigorosamente concepito per lo studio e l’ascolto in cuffia anziché per la resa live, Obverse alterna in scaletta 5 brani che vedono la presenza di illustrio emergenti special guest femminili – dalla leggendaria Rachel Goswell degli Slowdive all’indie-rocker americana Lina Tullgreen, dalla fidanzata di Anders Lisbet Fritze (neomamma del loro primo figlio) alla vocalist dei Warpaint Jenny Lee Lindberg – a cinque intimisti, cinematografici paesaggi strumentali in bianco e nero. Con Cold Comfort l’incipit del disco prende gentilmente per mano introducendo a uno spazio emotivo avvolgente e rarefatto, sotto la guida della eterea e malinconica voce di Rachel Goswell, per poi inondare con improvvise scrosciate di chitarra elettrica alla My Bloody Valentine. Un invito a rendersi vulnerabili, a perdersi senza paura (“you lost your way” ripete il ritornello). Church Of Trees è il primo brano strumentale le cui sotterranee texture synth a bassa frequenza giocano su una sinuosa coloristica fra i maestosi crescendo, tramando un’architettura sonora in 3d a metà tra un bosco notturno ed una cattedrale gotica. Con il brano succesivo In the Garden la voce di Lina Tullgreen nuota limpida su un semplice quanto sognante riff che distilla in gocce di pioggia un dialogo fra tocchi di chitarra e basso come in un outtake da Seventeen Seconds dei Cure. In Foggy Figures armoniche che sembrano riprendere di peso l’intro di tracce vocali distorte di Mouth’s Cradle di Björk, evolvono presto in un ricamo di echi e fluide ritmiche che si susseguono perdendosi, per risolversi in un rapido ed idiosincratico synth in 6/8. Blue September, angelica melodia vespertina a metà fra l’intimità di una preghiera – o meglio l’estasi mistica di un inno gregoriano – e il sinistro richiamo di una sirena che lamenta ricordi perduti: forse il brano più accessibile del disco. Trnt è sinuosa, ipnotica synth-suite industrial di ben 8 minuti visivamente evocativa, che ricorda certe sinistre atmosfere da incubo lynchiano quanto lo stratificato astrattismo di un quadro di Gerard Richter. Con One Last Kiss To Remember muri sonori di sporche chitarre alla Nine Inch Nails incorniciano una nostalgica e delicata melodia in cui la voce di Lisbet Fritze canta del ricordo di un amore impossibile immersa in un’aura di sognanti riverberi. Sleeper invece è una dolce ninna nanna strumentale in cui morbidi vocalizzi maschili si fondono con mirabile naturalezza ai toni calanti dei sintetizzatori in un mood inequivocabilmente invernale. Try A Little è il brano più vicino ad un singolo radiofonico per un album senza singoli, con una melodia dal chorus decisamente catchy affidata all’energica voce di Jennylee dei Warpaint, su una base smaccatamente new wave, ormai inconfondibile marchio di fabbrica del sound Trentemøller. Termina l’album Giants una track strumentale che apre a maestose armonie in pianissimo a partire dall’intermittenza statica di un radiofaro, una sorta di scandaglio all’esplorazione delle buie profondità oceaniche dell’anima.

Per concludere, forse non il capolavoro di Trentemøller, mancano le melodie in grado di rimanere scolpite nel cuore e impresse nella memoria già dai primi ascolti, o le amare dance hit della più raffinata elettronica (Moan su tutte) che hanno conquistato il grande pubblico a metà anni 2000, ma con questo quinto LP dall’impronta minimal va riconosciuto all’artista danese il coraggio di procedere oltre la propria comfort zone verso territori forse già esplorati in passato, ma ora riaffrontati con una ricchezza stilistica ed una consapevolezza compositiva frutto di oltre 15 anni di costante sperimentazione musicale attraverso diversi generi, distillando il tutto in un sound assolutamente unico.

Livio Piantelli