TR/ST 
“The Destroyer (Parts I & II)” 
(Royal Mountain, 2019)

A cinque anni di distanza dal secondo album Joyland e a sette dal folgorante esordio Trust, il giovane cantautore di Toronto Robert Alfons – mente e voce del progetto synth-pop TR/ST – è tornato alla ribalta nella scena underground 2019 con la doppia release The Destroyer, album pubblicato in due parti a sei mesi di distanza per l’etichetta indipendente canadese Grouch di Royal Mountain Records, co-prodotto dal pluricandidato ai Grammys Damian Taylor (Prodigy, Björk, Arcade Fire, Killers e Unkle solo per citarne alcuni) e realizzato con la collaborazione di Lia Braswell alla batteria, Esther Munits alle keyboards (anche in tour), e della storica Maya Postepski degli Astra.

Se la perfezione dark-synth del debutto sulle scene aveva scatenato un’ondata di isteria collettiva di pubblico e critica, elevando da subito la band allo status di cult, le frenetiche aspettative per il lavoro successivo si erano fatte tanto pressanti da rendere plausibile una parziale delusione dalla seconda prova. E infatti Joyland non aveva convinto, seppur nel frattempo la visibilità del brand TR/ST si stesse propagando, anche grazie alla geniale inclusione di hit come Candy Walls e Sulk in soundtrack avvincenti come “American Horror Story Hotel” e “Death And Life Of John F. Donovan” (grazie di esistere, Shazam).

Ecco allora perché è stato fondamentale per Alfons prendere tempo e distanze, rifocalizzare l’attenzione, sfuggire alla vorticosa ressa dello showbiz, e rintanarsi in solitudine a contatto con la natura, in una sperduta fattoria di metà ‘800 fra i boschi fuori Toronto. E aspettare, senza fretta, l’ispirazione giusta, magari centellinare le uscite testando piccoli assaggi sul pubblico (il primo singolo Bicep nell’estate 2017, il folle video della title track Destroyer a inizio 2018), e poi sparire ancora. Annunciare un album di 16 tracce e poi farlo slittare di due anni, fino a raggiungere la certezza di avere fra le mani composizioni abbastanza solide ed incisive.

E l’ascolto dei due volumi di The Destroyer – ascolto peraltro più sensato in sequenza completa – dà l’impressione che l’autore abbia ritrovato la strada scoprendo la dimensione di un più ampio respiro, che abbia lavorato con certosina cura artigianale per trasfigurare in musica i propri demoni, rimanendo fedele al proprio istinto, riscoprendosi bambino nel giocare con l’elettronica – libero di sperimentare, disattendere le aspettative e bandire ogni interferenza: le pressioni, le critiche, gli elogi, gli idoli, e soprattutto il desiderio di accontentare tutti o il terrore di non bissare il proprio successo.

Come risultato, Alfons riafferma da un lato l’unicità del proprio stile, l’inconfondibile versatilità della sua voce, che oscilla da un rauco e sinuoso baritono ad un androgino e felino contralto; le avvolgenti texture armoniche che dipingono diffusi paesaggi astratti (Enduring Chill, Cor) per poi inondare con esplosioni di puro grandeur sci-fi (la conclusiva Slowburn, forse il pezzo migliore); le sorprendenti progressioni che – con la consueta mirabile maestria – compongono melodie, variazioni e tonalità diverse in un unico, imprevedibile patchwork (il nuovo, stroboscopico singolo Iris). Dall’altro, la band si spinge oltre, mirando a confezionare e a incastonare, autentiche gemme pop, con qualche caduta (Control Me, la svista più eclatante).

Perché questo alla fine è il rischio di chi sporca le proprie matrici darkwave e la propria ruvidezza ribelle col synth-pop: dove “pop” è il termine sempre peggiorativo, il genere sempre sottovalutato, il calderone che ingurgita tutto. Non è facile emergere senza inseguire trend e mode, senza scadere nel banale. Saper essere “pop” è ambire a raggiungere quella semplicità compositiva, quell’immediatezza che rendono un brano musicale un instant classic, capace non solo di toccare tutti, ma di incarnare lo zeitgeist, cogliere lo spirito del momento e cristallizzarlo nel tempo.

Livio Piantelli