JACK WHITE
"Entering Heaven Alive"
(Third Man Records, 2022)

Ormai è assodato, esistono due Jack White e la conferma ce la dà lui stesso. Il genietto di Nashville ha infatti pubblicato quest’anno due album consecutivi, usciti a pochi mesi l’uno dall’altro per la sua etichetta Third Man Records. Il primo Fear Of The Dawn è un concentrato di distorsioni, suoni sintetici e ritmi funky, un’evoluzione ipermodernista della musica nera, una fusione cerebrale del maelstrom di culture bianche e nere in cui White sguazza agevolmente. Nel secondo invece, Entering Heaven Alive, uscito da poco, torna a navigare sulle acque più calme e limpide della tradizione americana, tra folk, country e blues acustico con strizzatine d’occhio ai Led Zeppeli ma concedendosi anche delle piccole virate verso i primordi del jazz. Insomma la dicotomia dell’artista all’ennesima potenza.

Ma veniamo ad Entering Heaven Alive, l’album si apre con A Tip From You To Me una ballata acustica con piano boogie, per la quale Robert Plant farebbe bene a chiedere i diritti. Con la successiva All Along The Way siamo in territorio folk, con una sad ballad dalle chiare venature irlandesi. Love Is Selfish è un bellissimo brano country folk, suonato dal solo White alla chitarra acustica ed uscito come singolo in un video girato dallo stesso. I’ve Got You Surrounded è un devertissement in chiave funky/fusion. Ma è nella seguente Queen Of The Bee, dove si respira l’aria delle orchestrine swing di New Orleans, che la genialità del nostro eroe traspare in tutta la sua esuberanza, laddove arriva a mischiare le marimba con l’organo farfisa, suonato che più garage non si può, e il risultato non spiazza, anzi convince. In If I Die Tomorrow, a farla da padrona, sono le malinconiche note di un suono di synth a cavallo tra violoncello e clarinetto, tessute sul tappeto di chitarra acustica, soluzione già adottata da Jack White sul brano Love Interruption presente sull’album Blunderbuss del 2012. In Please God Don’t Tell Anyone, White prega il suo dio del ragtime, seduto all’honky tonk piano di un western saloon. Ma le sorprese non finisco qui, In A Madman From Manhattan, ci spiazza ancora portandoci sulle strade di New York come un redivivo Lou Reed. Con la conclusiva Taking Me Back piombiamo nuovamente ai primi del ‘900, in una sala da ballo clandestina durante il proibizionismo.

Un disco che ci conduce in un viaggio nel tempo, nel passato recente della musica, alle radici di quella commistione tra musica classica, tradizione popolare americana e cultura afroamericana degli albori. Un album godibilissimo ma al contempo colto e raffinato, che testimonia tutto il talento e la magia di quello che oggi è, a tutti gli effetti, un mostro sacro del rock contemporaneo.

Nino Colaianni