DISCO-ARTWORK
Discografie e iconografie
(Prima parte)

Qualsiasi autentico appassionato di musica sa perfettamente quanto conti la confezione e l’aspetto visivo con il quale viene presentato un prodotto discografico, vinile, cassetta o CD che sia. L’artwork di un album è il suo biglietto da visita, la sua faccia e il veicolo attraverso il quale ne ricaviamo la prima impressione. Esso può generare, letteralmente, amore a prima vista o respingerci all’istante, così come può rappresentare il corredo ideale dei contenuti sonori o collidere con essi. Per queste ragioni, il presente articolo è il primo di una serie incentrata su esercizi di analisi iconografica ragionata che ha per oggetto copertine di dischi e relativi packaging. Partiremo da quattro casi esemplari che afferiscono ad estetiche visive ispirate al mondo dell’arte contemporanea, alle su pratiche ed idee. Quattro esempi di eccellente armonia tra essenzialità formale e compiutezza progettuale.

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1) L’estetica ultra-minimal

Silenzio, riduzione, assenza, vuoto, sono temi che hanno attraversato l’arte di tutto il ‘900, da Fontana a Cage, senza distinzioni disciplinari. Ma è tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio che, a mezzo della corrente ultra-minimal, anche in ambito discografico, queste estetiche raggiungono gli esiti formali più estremi. L’immagine a sinistra è la riproduzione della front cover di 0.0 (1999), album del nipponico Nosei Sakata, in arte 0. Un artwork completamente bianco, fatta eccezione per una minuscola scritta, sita sulla costolina, che riporta titolo-autore. Congruamente, anche il suono contenuto nel disco è pressochè zero. Per la precisione, se si alza moltissimo il volume d’ascolto, in un paio di momenti, si può udire un vago rumore sullo sfondo. Per di più, l’etichetta che lo consegna alle stampe è la giapponese Meme, distintasi per aver prodotto con logica seriale 16 CD, di cui 14 con lo stesso (anti)schema grafico appena descritto, uno senza copertina e un ultimo, con due cerchi (a tratto sottile) sul consueto fondo bianco-neutro. Altrettanto rigorosamente essenziale è l’artwork di +/- (1996), secondo album firmato da Ryoji Ikeda ed edito dalla britannica Touch. Di nuovo fondale bianco immacolato sul quale poggia a destra una piccola scritta che riporta l’essenziale: nome dell’autore (in nero) e titolo dell’opera (in rosso, unica concessione cromatica). Gli appassionati di avant sanno che dietro quel titolo binario c’è uno dei capolavori assoluti di sensei Ikeda. Un’opera di avanzatissima concezione digitale, tutta giocata su sinewaves e micro pulsazioni che nella loro rapida successione rispondono alla regola presenza-assenza enunciata dal titolo. Severe punizioni corporali attendono coloro i quali, di fronte ad opere d’arte concettuali come queste, oseranno ragliare per l’ennesima volta: “questo avrei saputo farlo anch’io”.

Section 25
Section 25
Always Now

2) Lettering art

L’attitudine ed il gusto per l’essenziale possono essere espressi attraverso svariate strategie visive. La scelta di comporre la front cover di un album impiegando unicamente caratteri tipografici, si palesa come soluzione anti-iconica dalle multiformi possibilità estetiche. La confezione di Always Now (1981) dei Section 25, è in assoluto tra le più eleganti e peculiari tra tutte quelle progettate dal geniale Peter Saville per la Factory. La prima edizione si presenta in cartoncino giallo limone con apertura posteriore “a pacco postale piatto”, interno in fantasia multicolor e fronte interamente campito da caratteri di media grandezza che riportano, senza differenze dimensionali, autore, titolo, tracklist e crediti. La rottura con gli standard discografici è ravvisabile eminentemente in questa inversione di gerarchie formali, in base alle quali, ciò che solitamente va sul retro invade il fronte, lasciando indifferenziati i dati “principali” da quelli “secondari”. Nel caso di Public Castration Is A Good Idea (1986) degli Swans, invece, in copertina campeggiano, più classicamente, soltanto il nome del gruppo (in arancione) ed il titolo dell’album (in bianco su fondo grigio chiaro), ma non per questo l’impianto visivo risulta contestualmente meno inconsueto. Le font ingigantite per riempire interamente il quadro, richiamano i linguaggi cubitali della pubblicità, disponendosi su cinque righe di testo “giustificate” in funzione del numero di lettere. Con l’abrogazione di qualsiasi tipo d’immagine, il messaggio non passa più attraverso la suggestione iconografica, ma piuttosto si fissa nella forma e nel senso delle parole. “La pubblica castrazione è una buona idea” diventa una sorta di slogan, un messaggio che, oltretutto, ci sentiamo pronti a sottoscrivere.

Rosy Parlana
Rosy Parlana
Iris

3) Blue Touch

Il blu è uno dei tre colori primari additivi e nella cultura occidentale è sempre stato simbolicamente associato ai concetti di purezza, sentimento e spiritualità: il colore del cielo, i suoi riflessi marini, il velo della Madonna etc. Nell’arte del secolo scorso lo possiamo trovare protagonista del cosidetto “periodo blu” di Pablo Picasso, nei “monocromi” di Yves Klein, ma anche nel cinema di David Lynch, Krzysztof Kieśowski e Darek Jarman. Poteva dunque mancare un corrispettivo nel mondo dell’iconografia musicale? E infatti … Jon Wozencroft, designer e co-fondatore della label britannica Touch non è certo esente dall’ossessione-passione per il blu in tutte le sue tinte e sfumature tonali, dal ceruleo al blu notte, passando per l’azzurro cobalto. Il “periodo blu” di Wozencroft si sostanzia nel virato monocromatico dei soggetti messi in copertina (di solito in cartoncino opaco) delle produzioni Touch, sopratutto a partire dalla seconda metà degli anni ’90, quando cioè l’indirizzo artistico della sua etichetta inizia a focalizzarsi massimamente su musiche elettroniche sperimentali. I soggetti prescelti si dividono essenzialmente in due categorie: paesaggi prevalentemente naturalistici e macrofotografia di carattere tendenzialmente texturale. L’assoluta libertà con la quale le immagini (non)dialogano con i contenuti musicali, danno la misura di quel senso di sobrio distacco e disinvolta eleganza che è insito nel rifiutare ogni tensione descrittiva, allontanando così il rischio di scivoloni didascalici. Come dire, la natura astratta di quelle musiche non è riconducibile a nessuna immagine, ma piuttosto (forse) ad una suggestione cromatica, ergo è, simbolicamente, il colore dell’aria e dell’acqua, della purezza e dell’evanescenza ciò che va messo in scena per gli occhi dell’ascoltatore.
 Immagini: Oren Ambarchi Insulation (1999), Ken Ikeda Merge (2003), Mika Vainio Onko (1997), Rehberg And Bauer Passt (2001), Rosy Parlane Iris (2004), Biosphere Substrata (2001).

20' To 2000
Rastal-Noton
“20′ To 2000”

4) Serial design

Il concetto di serie nel mondo dell’arte post rivoluzione industriale, dalla riflessione di Adorno all’opera di Warhol, ha assunto un peso ed un centralità ineludibili. Le scelte artistiche della label tedesca Raster-Noton, fondata nella seconda metà degli anni ’90 da Carsten Nicolai (Alva Noto), Olaf Bender (Byetone) e Frank Bretschneider, si distinguono come caso esemplare di design seriale applicato alla produzione discografica di altissimo profilo estetico. Non è certo un caso che tanta cura e rigore siano espressione di una mente creativa come quella di Nicolai, che si divide da sempre tra mondo della musica micro-digitale e quello dell’arte contemporanea, nel quale si è fatto apprezzare per le sue installazioni sonore. Hanno carattere seriale e gusto scientifico-hi tech pronunciatissimo tutte le produzioni targate Raster-Noton: nel 1999, “20′ To 2000”, ad esempio, ha segnato con pubblicazioni a cadenza mensile il passaggio dal vecchio al nuovo millennio attraverso 12 mini-CD contenuti in conchiglie di plastica trasparente. Oppure la serie “Post”, digipack esternamente bianchi o neri con fronte traforato (in ordine e numero crescente rispetto all’uscita) dal quale si evidenzia l’anta interna monocroma. E ancora, i cartonati a libretto, con insert estraibile dal lato superiore e, per finire, le buste in plastica a chiusura ermetica dello stesso formato, ideate per la serie “Static”. La regola di tutti questi progetti è la stessa che sta alla base del design: conciliare forma e funzione, ma, in questo frangente, eludendo gli standard a favore della creatività applicata. Ed è davvero il caso di dire che osservando gli artwork della Raster-Noton si percepisce come e quanto il messaggio è già tutto contenuto nel mezzo. Ma chi l’ha detto che le dimensioni del vinile danno più soddisfazione e che i CD non valgono la pena di essere collezionati?

Emerge chiaramente che nei casi presi qui in esame, il disco e la sua cover, la musica e l’immagine, vengono concepite e presentate come un unicum estetico, un pezzo d’arte da fruire e possedere nel suo insieme. Nel fare questa considerazione, però, non può neppure sfuggirci, come e quanto, i processi di smaterializzazione messi in atto dalla musica liquida vadano a minacciare quella stessa concezione di disco-oggetto-fisico inteso come opera d’arte. La speranza è che il fenomeno non si aggravi fino alle sue estreme conseguenze. Lasciare che a godere di questa esperienza sia unicamente un’elite con i capelli grigi, culturalmente, non porterebbe di certo nè vantaggio, nè motivi di vanto a nessuno.

Gianluca Becuzzi