MARK LANEGAN
“Sing Backwards And Weep”
(Officina di Hank, 2021)

Prendete tutta la spregiudicata dissolutezza di Jim Morrison, la brutale arroganza di Keith Richard, la schizofrenica apatia di Iggy Pop, l’elegante tossicodipendenza di Nick Cave e non avrete che il 50% del marciume di Mark Lanegan.
Come può una potenziale rock star della grunge-era, che con la sua band ha venduto 300.000 copie e che all’epoca aveva all’attivo due album solisti acclamati dalla critica, piombare nel più cupo baratro dell’esistenza?
Queste le domande davanti a cui Mark Lanegan ci pone se ci accingiamo a leggere Sing Backwards And Weep la sua autobiografia data alle stampe qualche anno fa e recentemente tradotta in italiano, edita da “Officina di Hank”.
La risposta più immediata e superficiale potrebbe essere la tossicodipendenza da eroina, ma da una lettura più attenta le cause di quel malessere interiore risultano senz’altro essere altre e sicuramente più profonde e dolorose. Una su tutte il rapporto con sua madre, una donna dal carattere duro che fin da piccolo lo costringeva a piccoli lavori presso il vicinato per contribuire alle spese familiari e che criticava ogni comportamento del piccolo Mark apostrofandolo di continuo come buono a nulla e ripetendogli che nella vita non avrebbe mai raggiunto alcun risultato. Condite il tutto con la grigia esistenza nella provincia del freddo nord-ovest americano, circondato da bigotti boscaioli in camicie di flanella a scacchi. In un ambiente del genere è naturale per un adolescente con indole da teppista, trovare nella musica l’unica via di fuga.
Ed quello che accade quando incontra i fratelli Conner con i quali dà vita agli Screaming Trees.
In quegli anni la scena di Seattle stava esplodendo e i nostri si trasferiscono lì per cavalcare l’onda. Da qui in poi il libro è una lunga e rovinosa corsa sulla strada per l’inferno, tra amori e sesso sfrenato, bevute colossali e risse, nottate in squallidi motel, incidenti stradali, overdose e ricoveri in ospedale, consumo, produzione e spaccio di droghe (esilarante l’episodio nel quale Lanegan racconta di aver venduto eroina a Nick Cave di passaggio a Seattle).
In tutto questo la musica parrebbe solo un sottofondo ma non è così. La musica è l’anima, la musica è l’àncora di salvezza alla quale aggrapparsi per non naufragare nel catrame oscuro della dipendenza, per non perdersi nell’oblio dei dolori dell’anima, quegli stessi dolori che in quegli anni portarono via per sempre i suoi amici più intimi Kurt Cobain e Layne Staley.
Una stella però brilla in tutto il libro, dalla prima all’ultima pagina ed è l’ironia, un sottile ed impercettibile sarcasmo che il nostro eroe non rende esplicito a parole ma che traspare dagli aneddoti e dagli episodi descritti, un freddo e cinico distacco dagli eventi tipico di chi ne ha viste di cotte e di crude e non si meraviglia più di nulla. In fondo a distanza di anni gli avvenimenti vissuti, seppur drammatici, appaiono meno dolorosi, a tratti divertenti, in fondo it’s only rock and roll baby.
Quest’ultima può essere la chiave di lettura adottata da Lanegan per la catarsi, rinnovare nuovamente i ricordi di quegli anni infernali, per poi vomitarceli addosso, così che noi lettori assorbissimo parte del suo dolore e lui tornasse a vivere, come in un rito battesimale.
Per chi aveva vent’anni negli anni ’90, il libro è una miniera di aneddoti, un condensato di dettagli sulla scena grunge. Durante la lettura scoprirete di come Lanegan riforniva di droga Cobain, di quando picchiò il capo della SubPop, di Cornell che suonò in anteprima per lui Say Hello To Heaven e tante altre chicche per amanti del genere.

Nino Colaianni