MARK LANEGAN

Era il 1991 quando uscì Jesus Christ Pose dei SoundGarden e fu nel 1993 che apparve la croce cristiana nel video Heart Shaped Box dei Nirvana. Due segnali di quale spirito di morte aleggiava su Seattle in quegli anni. La capitale della X Generation e delle prime proteste contro la globalizzazione che di là a venire avrebbero incendiato il mondo, G8 di Genova compreso. È tra queste due date che si colloca l’uscita di Sweet Oblivion degli Screaming Trees. Lo acquistai da New Records in una serata d’inverno, tornai a casa e lo misi sul piatto. Conoscevo già l’album precedente Uncle Anastesia ma in Sweet Oblivion Lanegan si era imposto di cantare col suo registro vocale ideale, forzatamente evitato nei dischi precedenti ma che sarebbe poi diventato il suo marchio di fabbrica. Il disco si apre con Shadow Of The Seasons, a me invece si aprì il cervello, si spalancò il mondo. Fu chiaro fin dalle prime note che Mark Lanegan non era il Cristo in posa, né l’uomo in croce, bensì il Lazzaro uscito dalla grotta, il guarito, il redento, il sopravvissuto. Il teppista di Ellensburg che ha trovato nella musica la sua via di fuga dallo squallore della vita di provincia americana. Quel disco fu il più grande successo commerciale dei Trees anche se in realtà non vendette tantissimo se paragonato alle altre star del grunge, ma aprí alla band la strada della notorietà internazionale seguita da una serie di tour mondiali e festival internazionali. Bene, al contrario di quanto si possa pensare, quei concerti in giro per l’Europa furono un tormento per Lanegan, una fatica continua dovuta alla necessità di cercare sostanze in giro per le capitali in cui suonavano. Ricerche che lo cacciavano costantemente nei guai con il suo entourage, con i compagni di band, con la polizia ma soprattutto con se stesso. Da questo punto in poi la sua esistenza sarà una quotidiana lotta contro i demoni della dipendenza che lo porterà a toccare il fondo, il baratro, a perdere tutto quello che conta nella vita e a desiderare semplicemente la fine. Al rientro in America ci furono i due episodi più dolorosi che lo avrebbero segnato per sempre, la morte di Kurt Cobain prima e quella di Laney Staley poi. Amici con i quali Mark aveva condiviso belle ma soprattutto cattive esperienze e per le quali si sentirà responsabile e in colpa per i giorni a venire.

La sua vita colava a picco e qualcosa si era rotto nel suo animo, ma Lanegan sapeva anche tenere duro, in quel periodo cercava con tutte le sue forze di portare a termine il suo secondo album solista. Nel 90 era uscito The Winding Sheet, un disco che aveva lasciato positivamente sorpresi fan e critica, un album nel quale Mark, con Mike Johnson alla chitarra, aveva dato fondo al barile dei suoi dolori con una poetica ed un approccio musicale inusuale per un ragazzo che veniva dal punk e che ascoltava Stooges e Gun Club. Musicalmente era ormai quella la sua strada ma nella sua testa aveva in mente un sound più corrosivo e infernale, quello che nel 94 sarebbe diventato Whiskey For Holy Ghost ma che negli anni ha rischiato di restare lettera morta visto che Lanegan preso da crisi e sconforto, fu tentato più volte dall’idea di distruggere i nastri originali. Alla fine l’album fu pubblicato da Sub Pop, così come il precedente, nonostante Mark mal sopportava quella etichetta. Inutile che io scriva che ho consumato questi dischi e che li ascolto tuttora a distanza di quasi 30 anni, almeno un brano al giorno, come fa un sacerdote che deve celebrare almeno una messa al giorno. Si perché Lanegan è un dogma, è il salvato ma anche il salvatore. Molti come me in questi giorni hanno visto tramontare l’ultimo eroe del grunge, io personalmente ho perso un taumaturgo, un artista capace di assorbire a se tutte le miserie della nostra età, era lui a soffrire per noi liberandoci dal male. Ci rimane la sua vasta produzione artistica, nel 1995 canta su alcune tracce di Above il clamoroso disco della superband Mad Season mentre i Trees sono in tour negli USA e si apprestano a registrare il loro ultimo disco Dust che uscirà nel 96. Nel 2000 la band si scioglierà ufficialmente per divergenze creative. Nel frattempo tra il 98 e il 2001 Lanegan incide tre album. Il primo dei tre Scraps At Midnight è registrato al mitico Rancho De La Luna col sodale di sempre Mike Johnson. Il disco è quasi la chiusura di una triologia in cui il nostro va musicalmente alle radici del folk blues americano e riprende la poetica dei lutti e della redenzione, non è un caso che si trovasse a Los Angeles in una rehab. Nel 2000 hanno inizio le collaborazione con i QOTSA dell’amico Josh Homme e nel 2001 c’è la sua prima presenza sulle Desert Sessions giunte nel frattempo al vol. 7 e 8.

È grazie a quell’humus di creatività che nel 2004 verrà alla luce Bubblegum, il primo a nome Mark Lanegan Band (preceduto dall’EP Here Comes The Weird Child) quello che a mio avviso è il capolavoro di Lanegan, un album nel quale la poetica infernale trova finalmente il suo sound. Tutto, a cominciare dalla copertina total black con titolo in rosso, arrangiamenti, ritmiche e strumenti, ci catapulta immediatamente nei gironi infernali, tra fiamme e odore di zolfo. La gemma al uso interno è Methanphetamin Blues, con il diabolico ghigno all’inizio della traccia e quel suono di batteria che sembrano incudine e martello suonati da Mefistofele in persona. Ci sono voluti poi ben 8 anni per l’uscita del successivo Blues Funeral. Anni trascorsi a prestare la voce a progetti paralleli quasi non avesse più nulla di personale da dire, ma non è così. Perché con il suddetto album Lanegan celebra il suo proprio funerale blues, un disco che disorienta i suoi fan più ortodossi per via delle sonorità elettroniche che caratterizzano la produzione, ma che conquista, ascolto dopo ascolto, un nuovo stuolo di ammiratori soprattutto in Europa. I brani sono ricchi di synth e drum-machine, il nostro nelle armonie vocali abbandona le ballate folk blues e attinge maggiormente al gospel, il suo cantato è ruvido e animalesco ma naturalmente quello che maggiormente colpisce l’ascoltatore è la virata verso un sound più sintetico. In realtà l’amore per le sonorità eighties Mark lo deve ai suoi ascolti giovanili, non è un segreto che fosse un fan dei Joy Division e lo palesa con le recenti cover di alcuni loro brani. Il tempo dimostra che la nuova direzione intrapresa è quella giusta e non delude, anzi si rafforza nei lavori successivi, Phantom Radio, Gargoyle e Somebody’s Knocking sono album che calcano ancor più la mano sui suoni sintetici. Sono anni in cui Lanegan dà prova di godere di una libertà creativa che non ha pari nel rock indipendente, in altre parole fa quello che gli pare ed è evidente che si diverte pure.

Questo lato sarcastico e divertente del suo carattere è quello che gli ha permesso di affrontare e superare le difficoltà incontrate negli anni peggiori della sua carriera ed è quello che emerge dalla autobiografia scritta prima della sua prematura scomparsa e che oggi sembra quasi uno scherzo del destino che sia stata scritta in tempo. A corollario del libro esce anche un album Straight Songs Of Sorrow che è in pratica la colonna sonora degli episodi più dolorosi ma anche i più poetici della sua disordinata esistenza. Un libro e una manciata di canzoni scritte con l’intento di ripercorrere quelle tristi, ma tutto sommato formative, esperienze allo scopo di liberarsi una volta per tutte di quel fardello di sensi di colpa e lenire quelle ferite ancora sanguinanti. E il messaggio era che se ce l’aveva fatta lui potevamo farcela anche noi figli della grunge-Era. Vedere Mark Lanegan sul palco stringere fra le mani asta e microfono e udire il suo rauco ululare al mondo i dolori e la poesia è come vedere uno sciamano liberare gli spiriti col fuoco, è come vedere un pastore battezzare i suoi fedeli nel fiume. Lanegan ha lasciato la vita terrena e tutti noi, che siamo cresciuti con la sua musica, siamo da oggi un po’ più soli.

Nino Colaianni