Juan Atkins

A proposito di Detroit techno, verosimilmente il genere più popolare di tutta l’EDM (electronic dance music), è stato scritto tutto e di più. Sull’argomento si sono cimentate firme illustri della critica internazionale. È stato analizzato in tutti i suoi aspetti: formali, concettuali, culturali, sociali. A condizione di non banalizzare brutalmente, scambiandolo per ogni composizione che presenti una cassa battente sui quarti, ognuno di noi dovrebbe aver ben presente come suona un brano techno. Per quale motivo occuparsene di nuovo quindi? Semplice: se risaliamo alle origini di questo genere emerge un aspetto assai singolare che, per quanto ho avuto modo di verificare, non mi pare sia mai stato analizzato o, perlomeno, non dandogli l’evidenza che a mio giudizio meriterebbe. Dunque, senza mettere altro tempo in mezzo, andiamo subito a vedere di cosa si tratta.

Detroit 1981. Tre giovani afroamericani: Paul Lesley, Roderick Simpson e Sterling Jones, con il nome collettivo A Number Of Names pubblicano il singolo Sharevari. Drum machine che quadra in mid-tempo, una linea di synth in modalità auto-arpeggio, una che cita la frase principale di Home Computer dei Kraftwerk e una voce che declama senza nessuna enfasi il testo. Electro, diremmo oggi, certo, come lo è anche la celebre Planet Rock, pubblicata l’anno successivo da Afrika Bambaataa, con incastonata a bella posta la melodia di Trans Europe Express. Il 1981 è anche l’anno nel quale esordisce Juan Atkins, detroitiano nero all’epoca diciannovenne, unanimemente riconosciuto come il padre fondatore della techno. Cybotron sono un duo formato da Richard Davis e Juan Atkins ispirato alle teorie del sociologo-futurologo statunitense Alvin Toffler. Evidenti, fin dal primo singolo Alleys Of Your Mind (1981), le origini europee delle loro influenze sonore, anche qui riferibili a quell’electro che costituisce la pasta madre di buona parte delle attuali elettroniche dance oriented. Dopo un pugno di seminali singoli e l’album Enter (1983), Atkins lascia il timone del progetto nelle mani del solo Davis, a causa di insanabili divergenze sulla direzione artistica da intraprendere. Il passo successivo sarà decisivo: Atkins avvia il suo solo-project denominato Model 500 e contestualmente fonda la label Metroplex, con la quale nel 1985 dà alle stampe No UFO’s / Future, comunemente considerato il primo brano techno della storia. Dichiara Atkins: “Voglio che la mia musica suoni come due computer intercomunicanti, non voglio che sembri una band reale. Voglio che suoni come se l’avesse fatta un tecnico. Ecco cosa sono io, un tecnico con sentimenti umani”. Ed è proprio in questa tensione ideale verso la creazione di un suono tecnologico, algido e futuribile che risiede la denominazione, il senso e la direzione della techno. Sintomatico anche che gli autori techno chiamino da sempre se stessi “producer” e non “composer” o “musician”.

Derrick May

L’incontro di Atkins con Derrick May e Kevin Saunderson, altri due afroamericani che vivono come lui a Balleville, sobborgo proletario detrotiano, dà vita a quello che passerà alla storia come il triunvirato della prima generazione techno. I tre condividono gusti e visioni musicali, e di lì a poco scateneranno una rivoluzione ritmica destinata a conquistare il mondo intero. Derrick May fonda la propria label denominata Transmat Records. Con il moniker Rythim Is Rythim pubblica la hit Nude Photo (1987), una sincope meccanica a-cassa-dritta, e con la sigla Mayday il notturno-ipnotico The Darkside (1987). KMS Records è invece l’etichetta personale di Kevin Saunderson, il quale, sotto svariate denominazioni, inizia a sfornare brani massimamente improntati ad un ibrido tra techno e house, il più celebre dei quali è probabilmente Big Fun (1988) a firma Inner City. Nel 1988 la Virgin si interessa a quanto sta avvenendo nel nightclubbing della Motor City e decide di pubblicare la raccolta-manifesto Techno! The New Dance Sound che battezzerà il genere e lo diffonderà dapprima in Europa (Londra e Berlino in testa) e poi a livello virale-planetario. In realtà la raccolta inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi House! The New Dance Sound, ed effettivamente, a ben vedere, la scaletta alterna brani techno ed house. Fu Atkins ad imporre la sigla “techno”, contrazione di “technologic”, per distinguere il suono di Detroit da quello di Chicago. Scrive il giornalista statunitense Jonny Coleman: “Incompromissoria è il miglior aggettivo per descrivere la techno di Detroit e gli artisti che hanno posto le basi della scena. Se la house è una sensazione, la techno è un’idea, o forse un ethos fai-da-te, realizzato nelle camere da letto dei suoi giovani creatori con qualsiasi macchinario capitasse loro a portata di mano”. La differenza tra Chicago house e Detroit techno sta essenzialmente tutta qua. Mentre la prima si lega alla tradizione della dance music dei decenni precedenti, rinnovandola nelle forme ma non nella sostanza, la techno ne ricerca il superamento totale, la rottura attraverso una futuribile visione tecnologica e, in ragione di questa, diversamente dalla house, si configura come musica radicalmente innovativa.

Underground Resistance

Concluse le doverose premesse, veniamo adesso al punto centrale. Non vi sarà sfuggito che in questa trattazione ci sono due elementi ricorrenti: l’etnia dei protagonisti e le origini europee delle loro ispirazioni. Proprio così: artisti neri che si ispirano, per loro stessa ammissione, a musiche bianche, anzi bianchissime, in particolare alle movenze robotiche del cyber-kraut di Kraftwerk, ai belgi Telex, al munich sound di Giorgio Moroder (quello elettronico di From Here To Eternity), al synth pop britannico (Human League, O.M.D., John Foxx etc.) ed anche a certa italo disco, vedi alla voce Alexander Robotnick. Il dato è stupefacente, perchè non era mai accaduto prima di allora che degli afroamericani creassero un nuovo stile ritmico a partire da modelli musicali bianchi. Per ovvie ragioni sociali e culturali, blues, jazz, soul, funk, reggae, hip hop sono musiche create da neri a partire dalle concatenazioni delle proprie radici-tradizioni culturali. Nel corso della storia è avvenuto regolarmente che molti musicisti bianchi subissero il fascino della black music e la colonizzassero, mentre il processo inverso rappresenta una vera e propria anomalia. Alle origini del rock’n’roll, della disco music e della house c’era sicuramente un mix multietnico, ma ciò che avviene con la Detroit techno è cosa ben diversa. Il trio Atkins, May, Saunderson, mette a punto una formula che rompe con tutti quei topoi sentimentali della tradizione black, come feeling, soulful, blues, mirando ad edificare una nuova estetica del groove: essenziale, incessante, automatizzata, asettica. Derrick May dichiara: “Questa musica è come Detroit, uno sbaglio completo. È come George Clinton e i Kraftwerk bloccati in ascensore”. Ma in pratica se andiamo a verificare, appare evidente che, in quell’ascensore, Clinton è stato lobotomizzato dai pionieri di Dusseldorf, riducendolo ad un pallido manichino electrofunk. Soprattutto in Juan Atkins, la tensione verso il nuovo è tale da rendere ininfluenti le sue origini e fargli superare quell’orgoglio sociale che sta alla base dell’autarchia culturale nera. Il riscatto, per una volta, passa attraverso una proiezione in avanti, che scavalca la memoria delle discriminazioni razziali ingiustamente subite. Le stesse denominazioni prescelte, ad ulteriore riprova di quanto detto, non hanno mai nessun connotato di identificazione etnica, come avviene frequentemente altrove, e anzi tendono all’impersonale e al macchinifico.

Kevin Saunderson

Questo dato assolutamente atipico sarà confermato ed apparirà ancora più evidente quando, tra la fine degli anni ’80 e i primi dei ’90, ai pionieri si aggiungerà la seconda generazione della techno made in Detroit. Underground Resistance (spesso abbreviato nell’acronimo UR) è un collettivo-label nero di radicale e dichiarata militanza politica, sul modello di Public Enemy, guidato da Mad Mike Banks e le future technostar Robert Hood e Jeff Mills. Certo, la premessa teorica sembra antitetica rispetto a quanto fin qui sostenuto, ma se andiamo a verificare gli esiti musicali ci accorgeremo che, fin dall’esordio con Sonic EP (1990), UR contribuiscono all’evoluzione del suono di Detroit in termini assolutamente incompromissori. Di più, con loro la techno si spoglia ulteriormente di orpelli, attestandosi su livelli di essenzialità e durezza mai uditi prima. I parallelismi stilistici, anche in questo caso, vanno ricercati nel vecchio continente: la new beat belga, le prime forme di EBM (electronic body music) e la nascente scena hardcore techno. Stessa cosa vale per tutti quegli artisti che all’epoca gravitavano tra Shelter e Music Institute, i due technoclub di punta della città. I primi bianchi a ritagliarsi uno spazio nella scena detroitiana sono i DJ/producer canadesi Daniel Bell, John Acquaviva e Richie Hawtin. Gli ultimi due fonderanno assieme la seminale etichetta Plus 8 Records e Hawtin, noto sopratutto come Plastikman, assurgerà di lì a poco al ruolo di massima autorità iconica di tutto il panorama techno mondiale. Restano poi da citare Kenny Larkin e Carl Craig, altri due protagonisti afroamericani della seconda ondata. Mentre Larkin si distingue per un suono particolarmente cerebrale e geometrizzante che lo porterà a firmare, non a caso, per la britannica Warp Records, al contrario Craig predilige morbidezze jazz house che lo allontanano dall’originaria purezza del genere. Ma giunti a questo punto poco conta. A metà anni ’90 la techno ha ormai conquistato ogni angolo dell’occidente declinandosi in mille forme e sotto-stili tra loro diversi. Per chiudere il cerchio, va invece ricordato che quell’electro riletta con la lente detrotiana, che nei primi ’80 aveva originato la techno, non ha mai smesso di appassionare la comunità nera della Motor City. In linea di continuità con Cybotron e Model 500, James Stinson, proveniente dal collettivo UR, e Gerald Donald danno vita a svariati progetti comuni devoti al verbo electro-techno, come: Elecktroids, LAM, Abstract Thought, il più noto dei quali è sicuramente Drexciya, basato sulla saga fantascientifica del Red Planet e dei suoi guerriglieri-anfibi-alieni. Dopo la prematura scomparsa di Stinson, avvenuta nel 2002, Donald proseguirà nel medesimo solco stilistico sotto svariate sigle, tra le quali ricordiamo: Dopplereffekt, Japanese Telecom, Arpanet, Der Zyklus.

Giunti al capolinea di questo denso excursus viene spontaneo chiedersi se, come e quanto le origini anomale della Detroit techno, qui evidenziate, abbiano pesato sui suoi sviluppi e sul modo nel quale essa è stata accolta-percepita da e nel mondo. Potrebbe essere che il suo successo internazionale dipenda anche dall’insolita cifra multiculturale che l’ha generata? Da questa abolizione di circolazione a senso unico? Difficile stabilirlo con certezza. Di sicuro questa anomalia senza precedenti va rubricata tra gli svariati aspetti rivoluzionari che la techno ha introdotto nel mondo delle musiche elettroniche tout court. In senso ancora più ampio, la caduta silenziosa di questo muro, avvenuta quasi nell’ombra, senza destare in sè troppi clamori o attenzioni, ci piace leggerla, con slancio utopistico, come il segno di un progresso sociale e civile che accorda, al suono di un solo ritmo, un’umanità unita in un comune sentire universale.

Gianluca Becuzzi