LA MUSICA È UN FATTO PRIVATO
Massa critica e decremento di rappresentatività della musica d'oggi

Siamo un popolo di navigatori e poeti, ce lo hanno e ce lo siamo sempre ripetuto. Per ognuno di noi, c’è stato un tempo passato, collocabile pressapoco nell’età puberale, nel quale, una delusione amorosa in combinazione con un’abbondante peperonata, non potevano che tradursi in ispiratissima urgenza poetica da riversare sulle pagine di un Moleskine. Nella maggior parte dei casi “l’opera giovanile” è stata poi silenziosamente consegnata all’oblio di un polveroso cassetto e lì è rimasta, per sempre muta. Per quanto riguarda invece la navigazione, c’è chi ha svolto il servizio di leva nella Marina Militare, chi si è imbarcato occasionalmente su un patino o un traghetto e chi, contravvenendo l’enunciato iniziale, non ha mai fatto niente di tutto questo, però … Ad oggi, tutti navigano, anche se solo virtualmente, e in pochi sanno resistere alla tentazione di condividere sui social network i propri componimenti lirici, stavolta ricevendo in risposta numero “N” cuoricini-cuoricioni, pollicini-pollicioni. Altro che il solitario riverbero dei propri sospiri contro il soffitto della cameretta adolescenziale.

Questo succinto preambolo per dire che nell’epoca di internet e dei nuovi media informatici, con tutta evidenza, qualcosa del genere è accaduto anche con il mondo dei suoni e della musica. A fronte della massa abnorme di produzione musicale di questi ultimi anni, sia essa fisica o liquida, non si può non porci un interrogativo su che cosa stia accadendo tutto intorno a noi. Lasciando per un attimo da parte il dato qualitativo, e prendendo in esame solo quello puramente quantitativo, viene da chiedersi: il numero di chi “suona”, in qualsiasi modo e a qualsiasi titolo-livello lo faccia, è davvero aumentato a dismisura come sembra? O forse, è rimasto pressapoco invariato, ma ciò che un tempo si celava tra le quattro mura di garage, cantine e sala prove, oggi si palesa grazie alle nuove opportunità offerte dal web e dalle produzioni a basso costo? Detto più sbrigativamente: quanto le nuove tecnologie immesse sul mercato per creare e diffondere musica hanno incrementato il numero di coloro che “trafficano con i suoni”? Una risposta certa non la si può ottenere dato che, a quanto mi risulta, non esiste un’indagine specifica orientata in questo senso, e considerata la dimensione-estensione del fenomeno, credo non la si possa neppure chiedere. Non ci resta quindi che procedere, come nostro solito, con una riflessione critica che tenga conto di tutte le evidenze del caso. Andiamo per ordine …

In primo luogo, valutando il mercato degli stumenti musicali, dei corsi e delle scuole di musica, si osserva che la vendita degli strumenti tradizionali (chitarre, batterie, violini etc.) non ha subito flessioni, mentre l’offerta hardware (tastiere e dispositivi elettronici vari) si è ampliata abbassando vistosamente i costi e registrando un notevole successo. In calo, invece, gli studi di registrazione professionali a causa della concorrenza rappresentata dall’ormai sempre più economica soluzione home recording. Questo ci dice che la popolazione di musicisti “convenzionali” è rimasta costante nel tempo, ed è cresciuta quella del settore elettronico. Che si tratti di dilettanti, studenti, semi-professionisti o prefossionisti, nessuno, di questi tempi, si esimerà dal riversare su qualche supporto o nei vari cloud presenti in rete gli esiti del proprio operato. A ben vedere, se in passato in molti non riuscivano ad evadere dal perimetro domestico, evidentemente una ragione c’era, ma oggi non è certo più così. Che il prodotto sia eccellente o pessimo, grezzo o rifinito, non ha più nessuna importanza, non ci sono mura da abbattere, né selezioni meritocratiche da affrontare. Basta una connessione internet e qualche click per fare upload ed il gioco è fatto. Ma c’è altro ancora. Sì, perché a questo conteggio vanno necessariamente aggiunti anche coloro che un tempo non ci avrebbero neppure pensato-provato e adesso invece …

Uno degli equivoci più ricorrenti riguarda il luogo comune secondo il quale fare musica con il computer (o con quasiasi altro mezzo elettronico che preveda un certo grado di programmazione-automazione) sia facile e alla portata di chiunque, che per conseguire dei risultati con gli strumenti virtuali non serva una particolare preparazione e che si possa quindi operare anche in assenza di conoscenze specifiche. Niente di più sbagliato, semmai è vero il contrario, ovvero che servirrebbero una somma di competenze informatiche e foniche, oltre che musicali e compositive. Inoltre non è neppure vero che i software musicali si possano mettere tutti sullo stesso piano. Ne esistono di estremamente complessi, strumenti a misura d’esperti, per niente immediati da impiegare, di decisamente più approcciabili e, a scendere, si trovano anche semplici balocchi sonanti. Molte app sonore per iPhone e smartphone, ad esempio, hanno l’aspetto, e possono facilmente essere approcciate, alla stregua di un videogioco qualsiasi, generando nell’utente medio senso di familiarità e disimpegno ludico. Tutti ormai dispongono di desktop, laptop e dispositivi mobili, e proprio come nell’esempio iniziale dei “poeti”, anche con i suoni si genera lo stesso fenomeno di incontinenza espressiva, il lato buio-scriteriato del do it yourself. È così che l’upload generation, quella da audio-patchwork usa e getta, sommata a musicisti-compositori professionisti, semi-professionisti ed ex-invisibili, va a sedimentarsi in un’unica massa critica di proporzioni davvero impressionanti. Un blob titanico all’interno del quale, apparentemente, tutti i linguaggi e i diversi livelli-motivazioni coesitono orizzontalmente. Una giungla per l’esperto, una tela di rangno per il neofita, una fatica improba per chiunque. A completamento del quadro, questo oceano di suoni-nomi-sigle va a sua volta ad aggiungersi allo scibile sonoro degli ultimi 50/60 anni, messo ormai a disposizione di tutti gratuitamente. Vedi alle voci: documenti audio, video, tutorial, cataloghi, spartiti, articoli etc.

Dunque, a questo punto appare lampante che la risposta alla domanda iniziale è: sì, negli ultimi anni è cresciuto, ed anche molto, il numero di chi si dedica attivamente all’universo sonoro e, certamente, le nuove tecnologie hanno giocato un ruolo cruciale in questo processo.

Adesso, però è il momento di chiamare in causa anche il fattore qualitativo, inteso sia in termini culturali che economici, perché, purtroppo, l’empirismo ci insegna che, di solito, l’aumento quantitativo non depone a favore della qualità. Per prima cosa bisogna dire che, come il blablaismo social-internettiano su società, politica e sport non corrisponde ad accresciute competenze in quei campi, così la massa di upload musicali su Youtube, Soundcloud, Mixcloud, Bandcamp, e il proliferare di micro-produzioni, non indicano di per sé un’accresciuta presenza artistico-contenutistica. Il fatto è che i processi descritti sopra hanno massimamente il carattere narcisistico dell’autoreferenzialità, la quale, per sua natura, dialoga solo con sé stessa fottendosene di veicolare o meno valore. Accade così che il ruolo assegnato attualmente alla musica pare dividersi massimamente tra il puro intrattenimento, rappresentato sia dal grande evento allo stadio della megastar, che dal piccolo djset da aperitivo urbano, o, in alternativa, da un vissuto sostanzialmente autoreclusivo e autistico. La dimensione, diciamo così, “di”mezzo”, quella cioè che vede la musica come espressione eminentemente artistica e culturale, da partecipare esteticamente, socialmente ed anche economicamente, è ormai relegata a minuscole nicchie formate da pochi, sparuti gruppi di individui. Tanto il puro intrattenimento, quanto l’autoreferenzialità, sono diverse posture di processi masturbatori, non-dialettici che rimandano unicamente alla propria sfera ego-edonistica, affermando implicitamente che la musica è una questione privata. “Spippolo, smanetto a palla” oppure: “che mi frega, a me piace”, sono le parole d’ordine del mondo dei più. Pochissimi sembrano vivere ancora la musica come un’esperienza reale e consapevole, da condividere collettivamente con passione autentica, senso di reciproco scambio ed arricchimento. O è idoltratria acritica, da celebrarsi in un’immensa orgia di carne, o è solitaria abbuffata bulimica, destinata a spegnersi in una pozza di vomito.

Se riusciamo a comprendere questo (non lieto) passaggio, non potremo sorprenderci nel constare che a fronte di un’indubbia crescita numerica di attori, la musica ha perso centralità, peso e rappresentatività, in realazione al ruolo che era stata capace di svolgere nella società dei decenni passati. Basta poco per rendersene conto. Anche solo il fatto che la domanda “che musica ascolti?”, un tempo tra le prime che ci si rivolgeva in una prima fase di conoscenza interpersonale, sia quasi caduta in disuso, dice molto della perdità di potere identitario della musica nel nostro tempo. Oggi ci si riconosce tramite quei segni che una volta sarebbero stati bollati con disprezzo come status simbol borghesi. E allora attenzione e denaro vanno investiti in quei beni materiali capaci di rappresentarci: abiti griffati, dispositivi tecnologici, auto, e non certo in dischi. Eppure, può non piacerci, ma è chiaro che in un sistema come il nostro, ciò che non produce valore economico è giudicato privo di valore tout court. La massa critica autoreferenziale, oltre a non garantire niente sotto il profilo dei contenuti, corrisponde per certo al grado zero dell’economia musicale, in quanto rappresentazione del principio di gratuità. I mortificanti effetti che ne conseguono sono quelli che vi ho già descritto nel dettaglio in altre occasioni: stallo creativo, manierismo-revivalismo, crisi dei mercati della musica e musealizzazione della cultura popolare e non. Non so se vi siete accorti che … Superstar milionarie e piccoli artigiani del suono assai meno facoltosi a parte, il resto dell’economia musicale è ormai incapace di autosostenersi e, sempre più spesso, deve piegarsi al ruolo ancillare offertogli da cinema, televisione e mondo pubblicitario per poter sbarcare il lunario, con quello che ne consegue in termini di autonomia e specificità artistico-creativa. Certo, potrebbe andar peggio, ma personalmente non son disposto a dichiarare che così va tutto bene.

Non resta allora che augurarci una rapida decrescita felice in termini numerici, perché, con tutta probabilità, solo così potremo sperare in una (ri)crescita di quanto abbiamo smarrito nel tempo, inseguendo una promessa di democrazia universale. Una “democrazia” che si è rivelata essere nient’altro che l’ennesimo Cavallo di Troia, stavolta dotato di ventre a codice binario.

Gianluca Becuzzi