DRAB MAJESTY 
“Modern Mirror” 
(Dais, 2019)

Superata brillantemente la prova del nove del terzo album, ritornano i Drab Majesty, band losangelina, che luminari del rock a tinte “dark” del calibro di Billy Corgan e Robert Smith hanno indicato come propri eredi, per la gioia di tantissimi adepti che attendevano musica malinconicamente sognante e tragicamente sublime. E “tragic wave” è proprio il termine con cui la band ha scherzosamente etichettato il proprio sound, che tanto deve a quello dei primi anni ’80. La band, incrocio tra la magia estatica dei Cocteau Twins e la turgida freddezza dei primi Depeche Mode, non sembra voler ripiegare sulla nostalgia new 80s tanto di moda da qualche tempo, quanto recuperare quegli strumenti e quelle atmosfere, che hanno prodotto opere capaci di trascendere tempi, luoghi e mode, con sonorità intriganti e attuali.

Registrato in autoesilio ad Atene, Modern Mirror è un disco che, nel voler riflettere le tragiche inconciliabilità del presente, si rivela all’altezza del folgorante predecessore The Demonstration del 2017, lavoro che ha fatto conoscere al pubblico il talento del duo composto dal polistrumentista Andrew Clinco e dal tastierista Alex Nicolau. Può apparire forzatamente artificioso l’alone di mistero che questi due sfuggenti personaggi hanno studiato a tavolino, presentandosi al pubblico solo ed esclusivamente nei panni retrò-futuristici delle loro stage personas “Deb Demure” e “Mona D”, rispettivamente: alter ego più alieni che femminili o gender-bending. Ormai iconici il cerone, i black shades e i caschetti bianchi alla “Villaggio dei Dannati”, così come l’atteggiamento distante e le movenze robotiche nelle performance live o nei sofisticatissimi videoclip, dove le più oscure citazioni letterarie e cinematografiche si sprecano. Il progetto estetico funziona perché la musica regge comunque da sé. I temi sono quelli cari alla tradizione musicale post-punk e synth wave da cui la band attinge a piene mani, e che ha fatto suoi già nei lavori precedenti: alienazione (“It’s apathy what goes around” insinua The Other Side), spaesamento (“Does anybody understand these times?” chiede Out Of Sequence), incomunicabilità (“Turned you into someone I just had to run from” – Long Division), disumanizzazione (“Love is a Panopticon, Satan hides no more” minaccia Noise Of The Void, perfino paragonando l’amore al carcere ideale del filosofo inglese Jeremy Bentham). A tutto ciò si aggiunge il ruolo di spietata lente di ingrandimento che globalizzazione, social e mass media giocano oggi sulla nostra percezione di noi e del mondo. Ma stavolta il senso di sopraffazione, l’impulso alla fuga e il ripiegamento in se stessi sembrano più diretta conseguenza di un tentativo reale e concreto di apertura, esplorazione e confronto col mondo esterno, solo per arrivare infine a riconoscere la nostra fredda indifferenza di fronte al suo desolante e inesorabile disfacimento.

Una bellezza ipnotica e chiaroscurale lega fra loro le otto tracce, accomunate da un sound sempre pieno, limpido ma ruvido, dove dialoghi e refrain di chitarre shoegaze immerse in oceani di pedale si snodano in mirabile equilibrio fra mood sepolcrali e apocalittici alla Pornography dei Cure, ed improvvise elevazioni quasi-mistiche come nei migliori Slowdive, e dove synth beats nervosi e incalzanti sostengono sublimi armonie vocali dalle chord progression mai scontate. Il tutto finisce per tessere un cristallino e lisergico paradiso artificiale dove rifugiarsi resta l’unico modo per ritrovare se stessi, tornare in contatto con le proprie emozioni, riscoprire la propria umanità .. o quel che ne resta.

Livio Piantelli