MAX FUSCHETTO
Salve Max, il tuo ultimo album Sùn Nà mi è piaciuto molto, come ho avuto modo di scrivere nella recensione di qualche mese fa per Frastuoni, credo sia davvero un lavoro innovativo ed al tempo stesso rispettoso della tradizione. Contiene almeno cinque grandi brani, e il resto non è da meno, penso renda davvero l’idea di un concept album “onirico” incentrato sul viaggio e sul sogno. Composizioni come Oniric States Of Mind, Palsagem Do Rio, Samaher e Les Roses D’Arben, quest’ultimo con la presenza di Andrea Chimenti, sono dei riuscitissimi e mirabili esempi di linguaggi musicali possibili.
Grazie Giuliano. Credo che nella recensione di Sùn Nà tu abbia colto alcuni aspetti importanti della mia poetica, termine inteso nel senso stravinskyano, che a sua volta si rifà ad Aristotele, cioè di qualcosa che riguarda il “fare e il costruire” e non i riferimenti extra musicali sempre molto soggettivi. Quando hai parlato ad esempio positivamente dell’equilibrio tra l’elemento acustico e quello elettronico hai espresso in maniera incisiva una delle mie preoccupazioni e cioè quella di un’estetica convincente. Sia in Sùn Nà che in Popular Games l’uso di questa risorsa è stato dettato per lo più da necessità di tipo costruttivo. Lì dove avvertivo, come in Vibrazioni Liquide, che il gioco di rifrazioni tra i vari livelli dello strato musicale in divenire sarebbe esploso grazie all’elettronica non ho esitato ad usarla. In altri brani come in Paisagem Do Rio, o nei fiati di Return To A, gli effetti lisergici e deformanti tipici del paesaggio elettronico sono stati invece realizzati attraverso un uso particolare degli strumenti a fiato. Per quanto riguarda il modo in cui affronto la relazione con elementi musicali provenienti da universi altri, non parlerei di contaminazione, come mi è capitato di leggere in alcune recensioni, perchè non prendo elementi di altre culture musicali e li inserisco così come sono nella mia musica. Questa modalità mi ha sempre infastidito. Ciò che della diversità mi interessa, e come diversità intendo anche ciò che ci è vicino ma non conosciamo, è il pensiero che sta dietro la musica. Il mio apprendistato è passato anche attraverso la riscrittura di modelli musicali che ritenevo interessanti e validi. In questo modo ho imparato a conoscere dal di dentro i processi compositivi e a familiarizzare con materiali sonori, timbri e strutture musicali che non conoscevo. Il risultato è che dopo questo viaggio durato anni sono ritornato a casa con una consapevolezza nuova rispetto alle potenzialità della scrittura. L’elemento onirico che emerge in Sùn Nà è un fatto soggettivo legato anche all’esplorazione del subconscio, tuttavia una delle cose che reputo più interessanti è quella di trasporre nella musica concetti provenienti da altri ambiti dell’esperienza umana per cui i titoli che scelgo e le parole che uso spesso non sono messe a caso ma sono relazionati in qualche modo alla musica, ai suoi processi.
Come ben sai l’Italia è un paese dove la buona musica ha sempre meno canali per raggiungere un pubblico più accorto e ricettivo, ma ho visto che stai girando molto, soprattutto nel centro e sud Italia, per presentare Sùn Nà. Ti sta premiando questa scelta diciamo “pubblicitaria”?
La musica che faccio è la mia musica, risponde ad un’istanza interiore che è quella di muoversi sempre in avanti, e quindi non può adattarsi con facilità a quello che è considerato il mercato. Di conseguenza ciò che mi interessa è girare portando il mio messaggio che, per dirla con Andrea Romeo che ne ha scritto su “L’Isola Che Non C’Era” è “pregno di una libertà espressiva pressocchè totale”. La reazione a Sùn Nà ha stupito anche me: Dopo una pioggia di recensioni positive, dopo le presentazioni in RAI e le interviste della radio nazionale tedesca, sono arrivati i live. Operatori indipendenti, spesso non appartenenti ai circuiti istituzionali, si sono messi in contatto per poterci ascoltare dal vivo. Siamo partiti, dopo una serie di presentazioni iniziali, col Summer Tour per approdare in autunno a Expo 2015 grazie anche al lavoro innovativo sulla lingua arbereshe realizzato in collaborazione con la poetessa e cantante arbereshe Antonella Pelilli. L’interesse per il disco è stato crescente e così siamo arrivati alla quarta ristampa in pochi mesi.
Nei tuoi lavori ho notato un approccio mistico, letterario, olistico, nel comporre e una grande capacità descrittiva e immaginifica, qualità oggi assolutamente non comuni.
La mia idea è che la musica sia un luogo in cui, con i mezzi che le sono propri, è possibile sperimentare e vivere quello che attiene alla vita e soprattutto, per chi ci riesce, esprimere attraverso una sintesi inedita quella che è l’esperienza della contemporaneità nel suo complesso. E siccome la nostra esistenza è fatta di elementi peculiari, come ad esempio quello ascetico o spirituale, ecco che un’immagine che viene da lontano, come quella della mia visita ad un’antica moschea a Tunisi nell’estate del 1993, diventa, anche grazie al testo di Antonella Pelilli, In Preghiera, l’ottavo brano di Sùn Nà, che rappresenta il prologo di Samaher. In Paesagem Do Rio un mondo formicolante e vitale sbarra il passo alla morte concedendo supremazia alla vita. Tuttavia il brano dell’album che forse di più rappresenta quell’olismo di cui parli è Samaher. Samaher ha una genesi lontana. Nel 2000 lavoravo ad un brano che esplorava il concetto di linea. Mi venne in mente di lavorare su quella musica che, come per il gregoriano, è una musica strettamente legata alla linearità e che non presenta quella che noi musicisti occidentali definiamo “armonia”: la musica araba. Scrissi perciò per violoncello un brano che ho usato nel 2006 per una suite commissionatami dal Festival Di Ravello e che si trova su You Tube eseguito da Silvano Fusco. Il passo successivo fu quello di realizzare un lavoro che desse conto delle voci della diversità che affollano il Mediterraneo e nel contempo una forma musicale ciclica ma sempre cangiante che ad un certo punto esplodesse realizzando un momento catartico. Ci ho messo un po’ per completare Samaher, è un brano che esplora molti rapporti. Di tempo: le linee degli archi, le percussioni, i fiati si muovono con velocità di espansione indipendenti. Di forma: le voci, differenti per provenienza geografica, seguono, rispetto al resto, una loro logica costruttiva e appaiono alla fine di ogni ciclo degli archi. Fisiologici: la melodia degli archi è un lungo respiro. Le voci, un breve e apparentemente caotico frame; l’espirazione di frammenti. E poi c’è sempre un bordone intermittente del pianoforte che ricorda Mingus, il blues e di nuovo il Medioriente. Due le esperienze alla base di Samaher, due estremi di un ponte: la mia partecipazione al “Festival Del Mondo Arabo” nel 1993 a Cartagine (Tunisi) affiancato dall’incontro con l’orientalista Giuliana Cacciapuoti che mi ha iniziato alla letteratura e a parte della musica mediorientale, e la lettura de “La Sposa Liberata Di Yehoshua”, dove appunto c’è Samaher, una giovane studentessa palestinese.E’ possibile ascoltare questo brano sul mio canale youtube nel video che riguarda la trasmissione “Alza Il Volume” di RAI Radio 3.
Che mi dici dei musicisti che ti accompagnano, dal vivo ho avuto la sensazione che tra di voi ci sia una chimica particolare che vi unisce, quasi magica, è una mia impressione rispondente al vero?
Hai ragione, anch’io ho ritrovato, grazie alla freschezza ed al talento dei musicisti che partecipano al Sùn Nà Tour, quella ritualità ampia e positiva legata alla preparazione ed alla realizzazione dei concerti. L’esperienza e la bellezza della voce di Antonella Pelilli, la chimica sonora e l’eleganza della chitarra di Pasquale Capobianco con cui suono da sempre, la verve e la forza avvolgente del contrabbasso di Valerio Mola e infine la ritmica leggera e in costante crossover del più giovane del gruppo, il batterista Pasquale Rummo, fanno del live un’esperienza in continua espansione; citando Eraclito “non ci immergiamo mai due volte nello stesso fiume”.
Mi piacciono molto la voce e l’espressività di Antonella Pelilli, mi sembra davvero congeniale alla tua scrittura e l’arbereshe è una lingua molto musicale. Come sei arrivato a lei, parlami un po’ del vostro incontro?
Con Antonella ci siamo conosciuti credo nel 2004. Ascoltai la sua voce cantare senza accompagnamento un brano della tradizione arbereshe e ne rimasi colpito. Era una voce calda, piena ed espressiva. E poi mi rimandava a terre e culture lontane come quelle dell’Est Europa. Nel 2008 la chiamai perchè volevo che la sua voce e la lingua arbereshe fossero presenti nel disco che stavo completando, Popular Games. Le inviai una melodia che avevo scritto da ragazzo e che per caso avevo ritrovato in una cassetta. Il risultato fu interessante, nacque Portami Con Te, un brano che in virtù della sua forza nei concerti ho deciso di riproporre completamente riscritto in Sùn Nà. Dal 2008 è nata un’importante collaborazione che ci ha visti insieme in tantissimi concerti ma soprattutto ha portato anche all’importante collaborazione poetica e interpretativa dell’attuale lavoro discografico. Accogliere l’arbereshe nella mia musica è stato insieme casuale ed istintivo; una scelta che alla lunga è stata premiata dall’interesse del pubblico e della critica dimostrando che andando controcorrente, scegliendo un idioma minoritario, utilizzarlo con naturalezza insieme alle lingue globalizzate dell’inglese e del francese si produce ricchezza, la ricchezza della diversità. “Les Roses D’Arben”, il video dell’omonimo brano realizzato dalla regista Monica Mazzitelli, proiettato grazie all’interessamento di Fernanda Pugliese ed Antonella Pelill al padiglione albanese dell’Expo di Milano, è stato il nostro contributo a questa posizione insieme politica e culturale.
“Popular Games”, il tuo album di esordio (se non erro) pubblicato nel 2009 è un altro grande lavoro, forse addirittura superiore per certi versi a “Sùn Nà”. Credo sia un album più sotterraneo ed esplorativo, altrettanto misterioso ed onirico e con alcune suggestioni ambient e “minimali” più marcate, ma anche con grandi apertura, diciamo fusion, con la voce della Pelilli che a tratti mi ricorda Flora Purim.
Grazie dell’apprezzamento per Popular Games! È un disco a cui tengo molto. Dopo la pubblicazione di Sùn Nà si è creata una situazione per me imprevista: da un lato un rinnovato interesse per Popular Games, dall’altro gli ascoltatori hanno cominciato a dividersi in sostenitori dell’uno e dell’altro lavoro tanto che ora il nostro live è un mix dei due dischi. Popular Games esplora maggiormente la dimensione strumentale e delle fasce sonore come in A Sud Delle Nuvole o Salterello, mentre Sùn Nà è più spostato sulla dimensione vocale per cui le preferenze all’uno o all’altro sono anche determinate da questo. Come ho già detto in un’altra intervista, Popular Games contiene molte direzioni e Sùn Nà ne ha esplorata qualcuna. Per quanto riguarda la voce di Antonella rappresenta una di quelle espressioni timbriche uniche che esprimono l’unità di una cultura e ci consegnano universi irripetibili.
La “beat generation” mi ha personalmente aperto spazi e punti di vista non solo letterari, quali sono le tue principali influenze letterarie?
Rispetto alla musica intesa come “suono organizzato” (Varese), perchè è così che io la intendo, le mie influenze non riguardano tanto la letteratura, dove pure mi piace perdermi, ma il pensiero in generale. Un artista che amo molto e di cui leggo spesso gli scritti è Paul Klee. Al di là del fatto che sono abbastanza istintivo nella composizione, quando immagino di costruire qualcosa mi rifaccio spesso ad immagini, a processi che provengono da campi diversi del pensiero. Alcuni concetti mi aiutano a modificare il pensiero musicale di partenza e a proiettarlo in territori nuovi. Per quanto riguarda la letteratura od altro non ho mai creduto che il soggetto in sè possa rappresentare la novità per un compositore. È il modo di trattarlo che fa la differenza. Per esempio il paesaggio in pittura è stato sempre un “luogo” abbastanza battuto ma il modo in cui lo hanno trattato i pittori rinascimentali, gli impressionisti o Mondrian è completamente differente. Anche per la letteratura sono spesso più attento a come è trattato il soggetto. Per ritornare a Yeoshua, o guardando a David Grossman, posso dire che i livelli di scrittura differenti che troviamo nei loro romanzi sono indicativi di come la letteratura contemporanea abbia fatto propria da tempo l’attraversamento degli stili e soprattutto il modulare continuamente dalla complessità alla semplicità pur rimanendo profondamente se stessi. In musica Bèla Bartòk o i Beatles di Revolver e Sgt. Pepper lo hanno ampiamente dimostrato.
So che sei impegnato attualmente in un nuovo progetto, a cosa stai lavorando? Puoi anticiparci qualcosa?
L’ultima esperienza rappresentata da Legno A Cordès, un’installazione multimediale realizzata in un antico chiostro francescano a Benevento grazie al liutaio Enrico Minicozzi, mi ha portato a definire un progetto legato agli spazi in cui utilizzo le diverse possibilità espressive del suono acustico e dell’elettronica. Il passo successivo è stata la presenza a “Slowly”, una collettanea di artisti coordinata dal sociologo Raffaele Quattrone per la fondazione FCM (Carmine Mario Muliere) dove ho realizzato una performance da solista con l’elettronica interagendo col contesto ambientale attraverso gli strumenti dell’improvvisazione e della trasformazione del suono. Il prossimo passaggio sarà un interplay col compositore e chitarrista Enzo Amato che realizzeremo nella chiesa alla Pietrasanta di Napoli pensando proprio a quella particolare acustica.
Max perdonami la banalità ma come ultima domanda non riesco ad esimermi dal chiederti quali sono state le tue influenze musicali maggiori e i cinque fatidici dischi da portare sulla “affollatissima” isola deserta.
È una domanda difficile, la più difficile di tutte anche perchè nel corso degli anni ciò che ascolto è cambiato e quindi dovrei stilare una lista per ogni periodo della mia vita. Di solito sono le personalità che mi prendono: Debussy, Beatles, Bartok, Ligeti, Feldman, Reich, Stravinsky, Perotinus; ma anche il genio africano, quello afroamericano del blues e del jazz. Potrei andare avanti. Mi fermo. Di solito ascolto un disco fino a consumarlo. You Must Believe In Spring di Bill Evans, l’ho ascoltato in un mese mille volte. Le Sacre Du Printemps di Stravinsky, c’è sempre qualcosa da scoprire e per meravigliarsi. Revolver dei Beatles, l’ennesima dimostrazione che il genio è trasversale ai generi e l’essere “in avanti” una disposizione mentale. Atmospheres di Ligeti, una musica che cambia l’idea stessa del tempo e introduce con la micropolifonia un tipo originalissimo di texture. Images di Debussy, ovvero l’universo liquefatto. Ecco sono più brani che dischi … Poi però non bisogna dimenticare i musicisti ai quali nel tempo ci si affianca e che rappresentano quella contemporaneità dinamica e quadridimensionale che fa dell’arte un’esperienza collettiva.
Grazie Max per la tua disponibilità e buon lavoro.
Grazie Giuliano e complimenti per il bel lavoro che state realizzando con Frastuoni.
Giuliano Manzo