SLOW/FAST LISTENING
Quanto e come è cambiato il modo di ascoltare la musica nell'epoca del web
(Prima parte)

Avete tutta la mia comprensione se, avendo meno di 25 anni, dopo aver letto ciò che è scritto qui di seguito, si materializzerà sopra la vostra testa una nuvoletta con al centro un grosso punto interrogativo. Questo perché, nel corso degli ultimi decenni, la modalità corrente di approcciare all’ascolto della musica è radicalmente mutata, e con essa si sono trasformati, per forza di cose, anche valori, senso e spazi assegnati alla musica stessa. Per comprendere come e quanto sono cambiate le abitudini dell’ascoltatore medio nel corso del tempo è necessario tornare indietro con la memoria, e dove l’età-esperienza ce lo consenta, ricordare “come eravamo ieri” per confrontarlo a “come siamo oggi”.

C’è stato un tempo nel quale l’appassionato di musica doveva necessariamente procedere per tappe obbligate e compiere tutta una serie di riutali ben precisi prima di giungere ad appagare il proprio desiderio tramite l’atto dell’ascolto. L’amico esperto, l’autorevole giornalista del mensile specializzato, il rivenditore di dischi informato sui gusti dei propri clienti e lo speaker della radio “giusta”, rappresentavano quattro fonti capaci di indirizzare acquisti discografici e/o caldeggiare un dato evento. Per captare le irrinunciabili informazioni si trascorrevano nottate insonni con la radio sintonizzata sul proprio programma preferito, si attendeva pazientemente l’uscita mensile del periodico di riferimento, dove leggere voracemente le recensioni delle firme “fidate” e, sulla loro scorta, poi, partire per la “caccia grossa”. Chi abitava in provincia doveva saltare su un treno o su un bus per raggiungere il più vicino negozio di dischi specializzato in import o il luogo del concerto a lungo atteso. I negozi di dischi, in particolare, rappresentavano la meta di un pellegrinaggio dal quale non si poteva che tornare felicemente a buste piene e trasche vuote. L’immagine di copertina di un album, un breve assaggio dell’opening track, la tiratura limitata di un’edizione speciale o un cenno complice del vinyl-pusher, avevano determinato, in via definitiva, le nostre scelte, e a noi non restava che rincasare con quell’espressione che si dipinge solo sulla faccia degli innamorati che hanno appena incassato una promessa colma di opportunità. Solo al termine di questo iter l’atto dell’ascolto poteva finalmente consumarsi concretamente, e con quanta dedizione …. Ascolti immersivi e ripetuti, con gli occhi incollati a titoli ed immagini di copertina, attenzione massima ad ogni dettaglio. Coloro che hanno fatto esperienza di tutto ciò sanno perfettamente che stiamo evocando “luoghi perduti della memoria”, madeleine proustiane di portata generazionale. Se poi, alla poetica di Proust, per approfondire, preferite una lettura più ironica e disimpegnata, ma comunque acuta, sull’argomento è d’obbligo il saggio di Maurizio Blatto “L’Ultimo Dei Mohicani”, eloquentemente sottotilotato “Tutto quello che esiste ma che non potete credere che esista nel mondo della musica rock e dei suoi seguaci (più o meno) appassionati”.

C’è una regola universale che non dovremmo mai dimenticare: la mela più dolce è sempre quella che pende dal ramo più alto e ciò che la rende tale non è altro che il nostro desiderio. Fuor di metafora viene da domandarsi, quando e perchè il nostro rapporto con l’oggetto del desiderio musicale ha iniziato a mutare. Che cosa l’ha messo in crisi? La risposta non è semplice, ma è certo che l’entrata in scena del web (1991 USA, 1995 Europa, 1996 Italia) ha determinato trasformazioni macroscopiche nel mondo della musica, generando un terremoto di intensità gradualmente crescente, tanto che, una mattina, ci siamo svegliati trovando un tappeto di mele ai nostri piedi. Recentemente pubblicato anche in Italia da Enaudi, “Free – Cosa succede quando un’intera generazione commette lo stesso crimine?” di Stephen Witt, è un appassionante saggio che fotografa, come meglio non si potrebbe, un momento di transizione epocale: “La fine dell’industria discografica e l’inizio del nuovo mondo musicale”. Per narrare la storia della musica liquida e della pirateria musicale online, Witt utilizza le incredibili vicende di tre figure cardine: quella dell’affermato discografico Doug Morris, dell’ingegnere tedesco Karlheinz Brandenburg, inventore dell’mp3, e del “paziente zero” Dell Glover, il più grande pirata musicale di tutti i tempi. Ad emergere è un quadro sconcertante e la sensazione finale è che abbiamo optato per murarci tutti quanti dentro un cubo di cemento senza vie di fuga. La questione è centrale per comprendere quanto è avvenuto con il tacito consenso di tutti noi, nessuno escluso. Questa riflessione non è certo rivolta a coloro che da sempre vedono nellla musica un mero intrattenimento, un accessorio esistenziale di poco conto, limitandosi ad accendere l’autoradio e via; ma piuttosto a chi guarda alla musica con amore e premura, a tutti noi che le attribuiamo un valore artistico e culturale. Com’è potuto accadere che, dichiarandoci sostenitori della filosofia slow food, ci siamo trasformati in assidui frequentatori di McDonalds e Burger King? La mia risposta, mantenendo il parallelismo alimentare, è che ci è stato proposto gratuitamente un menù di dimensioni spropositate, più che pantagruelico, proprio troppo grande per la portata di uno stomaco umano e noi, stupidamente, ma anche inevitabilmente, ci siamo abbuffati fino alla nausea.

Tutto ha avuto inizio, circa un decennio fa, con le pratiche di free download. Le prime piattaforme che misero illegalmente in rete interi album / discografie / cataloghi scaricabili a costo zero furono: eDonkey (2000), Kazaa (2001), BitTorrent (2002), eMule (2002). Da lì in poi le vendite dell’industria discografica hanno iniziato a colare a picco. A poco o niente sono valse le numerose cause legali inizialmente intentate dalle major contro i pirati di internet. Come poteva salvare lo scalpo il Generale Custer rimasto da solo al centro di una bolgia di pellerossa? L’ascoltatore medio iniziò così a stipare hardisk di file mp3 (spesso di orrida qualità audio) creando archivi sonori destinati in massima parte all’oblio, dato che la capacità di fruizione umana è di gran lunga inferiore a quella di storaggio massivo di dati digitali. Inoltre, quando la musica inizia ad essere dispensata gratuitamente, ovviamente, il numero di chi è ancora disposto ad acquistarla si riduce drasticamente ai minimi termini, una sparuta tribù formata da pochi individui dotati di coscienza etica e/o preda di fervore nostalgico-feticista. Oltretutto, chi spende 14 euro per acquistare un CD, se non lo ascolta si sente un cretino, mentre chi lo scarica sul proprio PC a fatica e costo zero, no. Si tratta di un principio psicologico prima ancora che consumistico, che ha precisi effetti sui meccanismi della “libido musicale”. Nella nostra società ciò che costa zero è considerato corrispondente a valore zero, non conta, non appassiona e non merita particolari attenzioni. Triste ma vero. Domandatevi, ad esempio, quale ruolo potrebbe avere la prostituzione in una società totalmente liberata da ogni tabù sessuale. E ancora di più, non vi sorge forse il sospetto che la caduta di tutti i tabù, passati i primi grandi festeggiamenti orgiastici, potrebbe sortire, poveri noi, l’effetto collettivo di una clamorosa sbronza di bromuro?

Le “cattive abitudini” coltivate nella dimensione virtuale non hanno tardato a riversarsi con effetti catastrofici nel reale. Alla crisi dell’industria discografica è corrisposto un massiccio processo di gentrificazione: moria dei migliori negozi di dischi (chi si ricorda Disfunzioni Musicali di Roma, Supporti Fonografici di Milano, Demos di Napoli, Contempo di Firenze e Wide di Pisa?) e dei distributori-import-export indipendenti, a favore delle grandi catene come Virgin Megastore, Saturn, Fnac, Mediamarkt. Anche se, a dir il vero, ormai da svariati anni quello che rimane del commercio discografico è migrato, in massima parte, sul web con gli online store. In questo, curiosamente, sono l’appassionato che vive nella più remota provincia e l’ultra-specialista più esigente ad avvertire meno degli altri il cambiamento, dato che loro, anche in epoca pre-internet, per gli acquisti erano soliti rivolgersi ai cataloghi dei mail order. Coloro che invece il cambiamento lo hanno avvertito non poco sono le piccole label e gli artisti di nicchia che hanno visto scivolare le loro micro-economie dal semi-professionismo all’amatorialità. E dire che all’alba del web c’era chi era addirittura disposto a magnificarlo come un’utopia anti-gerarchica realizzatasi. Ben presto anche loro hanno dovuto fare marcia indietro ed ammettere che quello strumento dotato di grandi opportunità nascondeva, in realtà, più di un lato oscuro. Anche nel mondo del giornalismo musicale chi, come Stefano Isidoro Bianchi, direttore di Blow Up, in tempi non sospetti, aveva avanzato critiche e dubbi sulle ricadute della rete nel contesto artistico, era stato prontamente accusato di luddismo, salvo poi veder rivalutate a posteriori quelle stesse analisi come “acutamente lungimiranti”. Ma intanto, tutta una serie di danni compiuti erano ormai irreversibili.

Per adesso ci fermiamo qui. Nella seconda sezione di questo articolo aggiorneremo all’odierno il quadro della situazione, affrontando temi come: l’accelerazione avvenuta nel passaggio dal download allo streaming, l’inondazione della musica liquida operata dai social network attraverso lo sharing, la fenomenologia di quella che definiremo “upload generation” e altro ancora. Perchè è di tutta evidenza che la società dell’informazione, con le sue nuove regole, sta rimodellando radicalmente il nostro rapporto con il mondo dei suoni, il quale, per dirla con Wim Wenders, mai prima d’ora era stato “così vicino, così lontano”.

Nota: Un doveroso ringraziamento va a Diego D. Loop per le preziose cronologie fornitemi.

Gianluca Becuzzi