PEARL JAM
“Dark Matter”
(Monkeywrench / Republic Records 2024)

Ci sono cose delle quali non si riesce più a far senza. Sarà per via dell’abitudine, per la nostalgia, per troppo amore, per noia o per una sorta di attaccamento compulsivo. Questo discorso può valere tanto per la squadra del cuore, la pizza preferita o il telefonino quanto per i Pearl Jam. In quest’ultimo periodo la band di Seattle è stata un evento mediatico come pochi: anticipazioni periodiche di nuovi brani equamente divisi fra brevi frammenti e pezzi completi, interviste entusiastiche con presentazione del nuovo materiale alla stampa specializzata, un nuovo tour in programma con costose prevendite annesse, prenotazioni di vinili colorati in limited edition e una “Global Theatrical Experience One Night Only” in cinema e teatri selezionati in cui godersi in anteprima mondiale il nuovo Dark Matter. Un lavoro talmente atteso da generare addirittura un fastidiosissimo tambureggiamento di opinioni e confronti accesissimi nelle community, dai quali stare alla larga, tra appassionati, die-hard fans e disfattisti. Come se l’infallibilità della band non potesse essere messa in discussione o come se ci si aspettasse un nuovo Vitalogy o un picco alla No Code.

Eppure già l’omonima title track, scelta come primo singolo, con quel piglio granitico alla Soundgarden e il suo assolo concentrato, predisponeva ad un cauto ottimismo, nonostante non facesse gridare al miracolo. Un po’ la storia della classica montagna che partorisce un topolino. Ma intendiamoci: dopo 11 dischi in studio non si chiede più nulla di epico ai Pearl Jam e spero proprio che nessuno si faccia raggirare o abbindolare da una recensione per cambiare idea. Chi non li ha mai sopportati continuerà a farlo e chi, al contrario, è un loro strenuo discepolo troverà Dark Matter il solito disco riuscito e si riterrà offeso a morte di fronte a qualsiasi critica o opinione contraria. Nonostante ciò Dark Matter rimane l’opera più riuscita dei Pearl Jam dai tempi dell’Avocado Album del 2006.

Non so se possa essere preso come un complimento ma le unghiate iniziali di Scared Of Fear e di React, Respond manifestano una certa urgenza nel voler tornare a graffiare. Tra le 11 tracce presenti non mancano consueti episodi più moderati come la piacevole Won’t Tell, l’innocua Something Special, l’umorale Setting Sun e momenti più brillanti e smaniosi che portano i titoli di Upper Hand e Waiting For Stevie. Non si fa mancare proprio nulla questo album. Nemmeno nella più classica e rassicurante Wreckage che cita più o meno esplicitamente Learning To Fly di Tom Petty o nei superflui riempitivi Got To Give e Running, incautamente scelta come secondo singolo. Non manca neppure un nuovo produttore, il quotatissimo Andrew Watt, ma è innegabile che nel complesso c’è del sangue caldo che ancora scorre nelle vene della band e dell’energia che qualcuno non ricordava più. Bisognerà attendere il nuovo giro di concerti che porterà on stage queste canzoni per vedere se la giostra gira ancora per il verso giusto e se Dark Matter sia lo specchio di un’inaspettata iniezione di ritrovata fiducia o l’inizio di una fase di rock gerontologico nella loro carriera.

Marco Galvagni

 

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