GOODBYE SPACEBOY
La morte di David Bowie

David Bowie 211 gennaio 2016: la notizia della morte di David Bowie, avvenuta il giorno precedente in una clinica newyorkese, salta tragicamente alla ribalta della cronaca internazionale. Tra stupore, sgomento e commozione, nei giorni successivi non si parla d’altro. Dopo aver lottato per 18 mesi contro una di quelle dannate malattie che non lasciano scampo, si è spenta una delle massime icone pop del nostro tempo, un astro di prima grandezza. Stampa, televisioni, radio, social network e tutte le massime autorità politiche e civili, nessuno sembra potersi sottrarre dalla pubblica dichiarazione del proprio cordoglio, non il primo ministro britannico e neppure, incredibilmente, il portavoce vaticano, anche se il dolore più autentico sembra venire dall’oceanica legione di fan sparsi in ogni angolo del pianeta. L’uomo-stella è volato via, in quello spazio siderale che aveva cantato, alla ricerca del Maggiore Tom, lasciandoci quà, soli e impreparati ad accettare quest’ultimo colpo di scena. Talento, avvenenza, successo, ricchezza, certo, sono ben poche le vite che chiudono con un bilancio consuntivo tanto positivo. Bowie è stato massacrato di baci dalla fortuna, eppure, per quanto incontestabile, neppure questa evidenza riesce a renderci meno tristi. Da lui eravamo stati abituati ad aspettarci di tutto ma, contrariamente ad ogni ragionevolezza, non questo.

Con la sua musica e, forse ancora di più, con la sua immagine istrionica, il suo fascino aristocratico e la sua algida bellezza androgina, il Duca Bianco ha sedotto due generazioni di uomini e donne. Così, quando a 69 anni compiuti da pochi giorni, sul proscenio della sua vita è calato definitivamente il sipario è stato inevitabile sentirsi tutti suoi inconsolabili orfani. Poco conta che, da diversi anni a questa parte, la sua produzione artistica si fosse vistosamente diradata e, in più di un’occasione, avesse deluso le aspettative. Siamo perfettamente coscienti che non ci sarà mai più un altro Bowie. E devo confessarlo, a me pare di non aver mai assistito prima d’ora ad un lutto collettivo per una popstar tanto intensamente partecipato quanto questo. Di più, penso che quando verrà l’ora di giganti come Dylan, Jagger o McCartney, al di la’ della posizione che legittimamente occupano nella storia della musica, l’onda emotiva potrebbe non essere altrettanto travolgente. Questo essenzialmente perchè il fenomeno del divismo si fonda sulla condivisione generazionale e chi, per propria fortuna, vive a lungo, finisce per vedere le platee plaudenti trasformarsi progressivamente in cimiteri silenti.

David Bowie 3Nato a Brixton, Londra, come David Robert Jones l’8 gennaio 1947, David Bowie è stato un artista eclettico e coraggioso, sempre pronto ad accettare ogni genere di sfida-scommessa con e su se stesso. Oltre al ruolo di cantante-musicista-compositore, ha rivestito anche quello di talent scout, produttore artistico, pittore, attore cinematografico e teatrale ma, soprattutto, ha tenuto fede al ruolo di uomo di spettacolo fino alla fine. L’ultimo album Black Star, indiscutibilmente il suo migliore da molti anni a questa parte, è stato concepito espressamente come personale testamento sonoro ed ha visto la luce appena tre giorni prima che quella del suo autore si spegnesse. Al momento di metterlo in cantiere Bowie conosceva il proprio stato di salute ed ha lucidamente ingaggiato una lotta con il tempo per poterlo terminare prima che fosse troppo tardi. Un modo per eternarsi, eludendo i destini mortali, attraverso un ultimo definitivo gesto. Scrivere il proprio requiem è stato un “colpo di teatro” in perfetto stile bowiano. La “Stella Nera” è un epitaffio sul quale è inciso a memoria futura: “l’uomo che cadde sulla terra non se ne andrà mai più”. Un atto di fiducia totale, e per questo commovente, nel potere dell’arte come tramite per l’immortalità.

Dovendo tirare le somme di una carriera lunga quasi mezzo secolo, concordo con chi ritiene che il punto di forza estetico di Bowie vada ricercato essenzialmente nell’aver eletto il cambiamento ad unica costante e il trasformismo a regola del proprio operare. “Changes” come parola d’ordine dunque, ma c’è da aggiungere anche qualcosa in più. Ziggy Stardust, Aladdin Sane, the Thin White Duke e Nathan Adler sono, come è noto, le maschere più celebri create e indossate dal camaleontico Bowie per segnare i diversi periodi ed i salti stilistici del proprio percorso artistico. Così, attraverso la frammentazione di immagini-suoni in un caleidoscopio di identità multiple, Bowie ha messo di fatto in crisi il cosiddetto principio di autenticità, cioè quel parametro che convenzionalmente critica e pubblico utilizzano per giudicare la qualità di un artista-opera. Il sillogismo secondo il quale nella musica pop è “buono” solo ciò che è “vero”, in contrapposizione a ciò che è “falso”, “artefatto”, “insincero”, “costruito a tavolino” e dunque “cattivo”, viene scardinato alla base dall’impianto scopertamente teatrale sul quale si reggono gli alter ego bowiani, i quali giocano, di volta in volta, con l’identità sessuale, l’origine aliena, il sangue blu. Questi schemi attoriali sono stati interpretati con tale disinvoltura da insinuare il dubbio che anche quando Bowie si presentava in quanto tale, in realtà, stesse recitando un ruolo scritto in un copione occulto. Come dire che i personaggi bowiani penetrano la sua biografia al punto da rendere indistinguibile finzione e realtà, maschera e volto umano. È esattamente attraverso questa strategia dell’ambiguità identitaria che Bowie è pervenuto ad uno dei tratti più importanti e rivoluzionari del proprio essere popstar. Un’artista romantico alla rovescia e proprio per questo totalmente calato nella contemporaneità.

David Bowie 4C’è chi si è dovuto accontentare di essere uno e trino, David Bowie si è concesso il lusso di essere uno e multiplo. Giovanissimo folk singer in fogge hippie innamorato di Dylan e Barrett, scintillante idolo del glam rock londinese con un fulmine stampato in faccia, platinato-bistrato soul singer perso in festini losangelini a base di coca e sesso, pallido extraterrestre pel di carota, bohèmien berlinese ubriaco di tardo-krautrock, affascinante gigolò new wave, maturo dandy stabilitosi con famiglia e ingente patrimonio nel paradiso fiscale elvetico e via elencando. Oggi che David non c’è più è confortante osservare quanto la sua sia stata una vita intensa, spesa all’insegna dell’esperienza e, perchè no, anche del piacere edonistico, eppure, nella sua sfaccettata globalità, anche amministrata con estrema attenzione. Non ci deve sfuggire che tra le sue numerose doti spiccavano, intelligenza, cultura e una scaltrezza non indifferente nella gestione della propria immagine pubblica che lo hanno sempre reso il miglior manager di se stesso. Tutte qualità assai rare da riscontrare in una popstar, tanto che, in questo senso, l’unico parallelo che trovo verosimilmente possibile è con Madonna, altri nomi, onestamente, non mi sovvengono. E sia chiaro, lo dico in senso assolutamente elogiativo, dato che istintivamente ho sempre provato più simpatia per “i furbi” piuttosto che per “i cretini”, la qual cosa, a fronte della venerazione di tanti sconclusionati idoli beoti, non è così scontata come potrebbe apparire. Insomma, “Rebel Rebel” sì, ma con la testa.

Sotto il profilo strettamente musicale l’opera bowiana, composta da 25 album in studio più tutto il resto, per quanto stilisticamente cangiante, è innegabilmente dotata di una propria cifra distintiva, impressa in primo luogo dalle interpretazioni vocali di Bowie stesso, un marchio di fabbrica immediatamente riconoscibile. Per il resto prevale un fiuto speciale nel cogliere ciò che è nell’aria e, conseguentemente, saper voltare la vela in favore del vento, quando non addiritura, giocando d’anticipo, riuscire a tracciare per primo le rotte future. Non è un caso se la sua discografia è costellata di successi planetari in perfetto equilibrio tra fruibilità istantanea e buon gusto, e neppure che si sia sempre circondato di collaboratori scelti oculatamente. In accordo con una parte consistente della critica internazionale, anch’io ritengo che l’apice della carriera sia stato raggiunto, a fine anni ’70, con la celeberrima trilogia berlinese: Low, Heroes, Lodger. Fondamentale nel cesellare questi tre gioielli il contributo di Brian Eno, in quegli anni al massimo del suo geniale fulgore creativo. Il modo nel quale la coppia Bowie-Eno rilegge l’elettronica “krauta” degli anni immediatamente precedenti, ricontestualizzandola nell’atmosfera della Berlino divisa dal muro, conferisce all’opera un taglio di decadente modernismo tanto peculiare, quanto totalmente sintonico con gli umori dell’epoca. I brani strumentali, in particolar modo, svettano tra le composizioni più suggestive del trittico, oltrechè tra le migliori in assoluto di tutto il panorama musicale coevo. L’istantanea in bianco e nero che ritrae, nella sua enigmatica fissità, “l’eroe di cera” stretto in una giacca di cuoio nero, è icona epocale consegnata alla storia “forever and ever”.

David Bowie 5Tutto ciò accadeva molto tempo fa … Adesso, al momento di stendere queste righe, invece, è trascorsa appena una settimana dal giorno più triste di questo nuovo anno e il riverbero della bomba mediatica che ha infranto tanti cuori risuona ancora nell’aria. Black Star è al numero uno delle classifiche di mezzo mondo, States compresi. I mass media continuano a parlare di lui, a trasmettere canzoni e video che lo ritraggono in tutte le stagioni della vita, mentre star del calibro di Bruce Springsteen, Madonna, Elton John, esattamente come musicisti meno noti, tributano un ricordo a David suonando le sue canzoni più celebri. Mi rendo conto che in questi giorni su David Bowie è stato detto e scritto tutto ciò che si poteva dire e scrivere e le mie parole niente possono aggiungere e meno ancora lenire. Nonostante ciò non sono riuscito a tacere. In qualche modo dovevo farlo, non fosse altro che in nome di un ragazzino di 15 anni che nel lontano 1977, per la prima volta, portò a casa un disco del quale si innamorò all’istante. Da quel preciso momento la musica entrò nella sua vita per rimanerci. Quel disco, con profilo su sfondo arancio in copertina, era Low di David Bowie. Non posso ignorare il segno che quei suoni hanno lasciato per sempre dentro di me. Sì, perchè certi semi germogliano, crescono, non si possono e non si devono dimenticare, non sarebbe giusto nè leale. Goodbye Spaceboy, fai buon viaggio.

Gianluca Becuzzi