HOMO AUDIOPHILUS
Hi-end, audiofilia ed altre storie incredibili

Basta uscire in strada, prendere la metro o un bus, per rendersi immediatamente conto di quale sia oggi la modalità d’approccio più comune alla musica. Smartphone in mano, auricolari piantati nelle orecchie e streaming da Spotify o YouTube, è chiaro. Sotto il profilo della qualità audio, l’equivalente di Mc Donalds per il cibo. Fortunatamente, esiste anche l’appassionato di musica che a casa ha perlomeno una coppia di speaker collegati al computer, se non addirittura un impianto hi-fi con tanto di giradischi per celebrare il vecchio, caro rito del vinile. C’è poi il cosiddetto “gassaro”, il fanatico di car stereo, quello che ha speso più nel potentissimo impianto audio montato in auto che nell’auto stessa. Ormai non sono più moltissimi ma qualcuno in giro, rigorosamente con il gomito fuori dal finestrino, lo si può ancora avvistare, o forse dovrei dire udire? Meno ancora sono coloro che producendo “seriamente” musica, hanno bisogno di attrezzatura professionale di un certo livello, sopratutto in termini di risposta lineare e nitore sonoro. Questo, in estrema sintesi, il panorama odierno delle principali tipologie di fruitori sonori. Ecco, adesso dimenticate tutte queste categorie di ascoltatori, perché l’enclave esclusiva della quale ci occuperemo questa volta è tutta un’altra cosa. Anzi, se non la conoscete, neppure potete immaginare fino a che punto essa sia aliena, distante e singolare rispetto a tutto il resto.

Con il termine hi-end si indica il top della gamma degli impianti per la riproduzione e diffusione del suono, praticamente la fascia extra lusso dell’hi-fi, e la passione-fruizione per questa categoria di oggetti è detta audiofilia. La cosa ebbe inizio negli anni ’70, allorché alcune ditte iniziarono a produrre in serie i vari “pezzi” che compongono un impianto audio in ottica di eccellenza assoluta. Da lì in poi, si è sviluppata una nicchia, ristretta ma agguerritissima, di fanatici sostenitori del pensiero audio esoterico, la quale, per molti versi, somiglia ad una vera e propria setta iniziatica. La dedizione, il tempo e le energie, anche e sopratutto economiche, richieste dall’hi-end hanno generato, fin dal principio, un “pensiero” molto netto, un diktat che non ammette deroghe di sorta, forgiando così una piccola legione di crociati animati da un’incrollabile fede. Il motto per il quale essi immolano le loro stesse vite è: “La qualità d’ascolto non è mai abbastanza”. Detto questo, urge sgombrare il campo dal primo madornale equivoco che si potrebbe ingenerare in chi non sia sufficientemente addentro alla materia. Attenzione: l’audiofilo non è, ripeto, non è un appassionato di musica e, meno che mai, un conoscitore della stessa. Se uno di “noi” incontra uno di “loro”, deve sapere che cosa l’aspetta qualora accettasse l’invito del soggetto in questione a seguirlo per provare l’esperienza del suo impianto stereo. 999 volte su 1000 vi troverete in una stanza con una poltrona, due diffusori, qualche scatola metallica ed una manciata di dischi in un numero che potrebbe non superare la dozzina. Di solito questa miseria di titoli si suddivide in: qualcosa di classica, qualcosa di jazz e tre diverse versioni dell’immancabile Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd. Desolazione? Certo, perché “noi” non riusciamo a vedere ciò che “loro” vorrebbero mostrarci, ovvero che in quella stanza è custodito il doppio abbondante del valore di tutto l’appartamento. Ma sopratutto, cosa ancora più imperdonabile, “noi” non riusciamo a cogliere la differente resa sonora che passa tra la riproduzione con un cavo a terra ed uno adagiato sugli appositi sostegni. E mi raccomando, quando siete in quella stanza, non tentate di parlare di musica, sarebbe una scelta del tutto inappropriata.

Dicesi “entry level” il livello minimo richiesto per entrare a far parte della confraternita audiofila. Esso consiste in: lettore CD, pre, finale ed una coppia di diffusori di determinate marche, il tutto usato con un minimo di 15 anni e senza giradischi e cavi (che potrebbero costituire una voce di spesa aggiuntiva non indifferente), per una costo complessivo non inferiore ai 15.000 euro. Cioè il prezzo medio di un’utilitaria. Da questo primo livello iniziatico si può salire fino a cifre vertiginose di milioni di euro. Incredibile? Niente affatto, basta rivolgersi al top della gamma. Ad esempio, la sorgente DCS Vivaldi composta da quattro box, considerata lo stato dell’arte, costa 120.000 euro, così come altrettanto si può spendere solo in cavi per la connessione, marca Transparent. A questi 240.000 euro vanno sommati altri 600.000 per una coppia di diffusori Wilson Audio WAMM e, per finire, altri 80.000 euro volano via semplicemente per i cavi di potenza, sempre marca Transparent, modello Opus MM2. Eccoci arrivati a cifre spropositate senza aver evocato piatto, braccio e testina-puntina, i quali, come potete ben immaginare, faranno sforare abbondantemente il totale ben oltre il milione di euro. Follia? Sì, precisamente follia audiofila. Di più se si considera che non tutti gli hiender sono milionari, come si potrebbe erroneamente dedurre dall’esorbitante onere economico che questa mania richiede. Tra i possessori di sistemi audio di altissima qualità si annovera tanto il magnate russo che ne commissiona disinvoltamente l’acquisto all’architetto incaricato di arredargli la lussuosa villa a Forte Dei Marmi, quanto il ben più modesto dipendente pubblico o il piccolo professionista, i quali sono disposti a cenare a pane e tristezza per tutta una vita pur di esser “inner circle”. E non finisce qui …

Mono maniacalità, tic comportamentali, irragionevoli radicalismi e stolida insensatezza sono i caratteri comuni dell’audiofilo tipo, che è sempre un maschio over 30, perché, si sa, il collezionismo estremo olezza invariabilmente di testosterone stantio da vecchia caserma. Pur consumando un bene di lusso, questi individui non inseguono i vantaggi derivanti dall’ostentazione dello status symbol. Un impianto hi-end, per quanto possa esser costato un rene, non ha l’esposizione e non è immediatamente riconoscibile come una villa in riva al mare, un’auto di lusso, un guardaroba griffato o una collezione di Rolex. Piatti e amplificatori costosissimi non hanno mai ingenerato invidia sociale e, meno che mai, indotto nessuna pin up rampante a sfilarsi le mutande per chicchessia. La questione è palesemente autoreferenziale o, al massimo, si esplicita tra adepti. Nonostante tutto ciò, all’ombra della loggia audio esoterica, si consumano sanguinose lotte intestine e terribili scismi, in buona misura incomprensibili ad uno sguardo esterno. C’è, ad esempio, la scuola di pensiero degli analogisti, fedeli al “calore” valvolare e al vinile, che si oppone a quella dei digitalisti, sostenitori dell’alta risoluzione, superiore ai 44.100 Hz / 16 bit (standard CD), propria dei formati più evoluti della musica liquida. Inoltre, così come la visione americana tende alla potenza sovradimensionata (1000 wat e oltre), quella giapponese, guarda caso, all’opposto, lavora sul micro (5-6 wat). Sempre in Giappone, esistono anche maestri della puntina da giradischi, la cui etica corrisponde all’austera filosofia dei sensei forgiatori di katana. Altro posizionamento divisivo è quello che riguarda i cosiddetti “misuroni” ed “ascoltoni”. Qui è un po’ come con il vino, da una parte c’è chi vorrebbe razionalizzare attraverso l’oggettivazione scientifica, dall’altra chi punta sul valore percettivo dell’esperienza sensoriale. Va detto che, analogamente a quanto già accaduto nell’universo enologico, anche in quello audiofilo, con il tempo, sembra prevalere sempre più l’approccio esperienziale-suggestivo, promosso dalla storica rivista newyorkese Absolute Sound. Va da sé che, su forum e riviste specialistici, questi argomenti scatenano puntualmente dispute insanabili, guerre tribali che non possono terminare se non a reciproci sputi in faccia.

Non essendo versate alla fruizione propriamente musicale, le pratiche dell’audiofilo si sostanziano massimamente nella perpetua ricerca della combinazione ideale dei componenti attraverso tutta una serie di sfibranti test. Uno smonta-rimonta, sgancia-(ri)cabla, posiziona-riposiziona senza posa. Cioè, esattamente ciò che chi è interessato alla musica, ascoltatore o musicista che sia, detesta fare dal più profondo del cuore. C’è chi è capace di passare intere giornate unicamente a provare varie puntine, suonando fino alla nausea il medesimo brano, al fine di coglierne l’ipotetica differenza. La via mistica del suono definitivo, conduce l’audiofilo a puntare compulsivamente al rialzo attraverso una serie infinita di vendite-acquisti-permute. Una terra priva di orizzonti visibili nella quale la deriva autistica non rappresenta l’accidente ma la regola. Gli esiti di detti test d’ascolto vengono verbalizzati in termini vaghi ed evanescenti come: “il calore delle basse e le alte vellutate” (l’analogico ed il valvolare), “gli scenari grandiosi o la profondità della scena” (la resa stereo dei diffusori top di gamma), e via di amenità così. La norma è millantare percezione dei minimi cambi di assetto, ma si tratta palesemente, nel migliore dei casi, di autosuggestione, nel peggiore di consapevole ipocrisia. Stiamo parlando delle facoltà auditive di uomini adulti, non di gatti, pipistrelli o, al limite, di dodicenni cresciute in qualche quieta vallata alpina. La riprova è che al blind test, proprio come avviene con la degustazione dei vini, il sedicente esperto potrebbe tranquillamente non distinguere un pregiatissimo Sassicaia d’annata da un volgarissimo Tavernello in cartone.

Sì è vero, ognuno è libero di spendere tempo, energie e denaro in ciò che meglio crede. Ed è anche vero che è del tutto legittimo, da parte di chi la musica la ama, chiedere di ascoltarla “bene”. Nel caso della tribù hi-end, però, come già esplicitato, l’amore per la musica non c’entra un bel niente, ed anzi, si profila una vera e propria inversione di senso. L’homo audiophilus utilizza la musica per far suonare l’impianto e non il contrario. Il suo ascolto si concentra sulla performance dello strumento, non sull’estetica dell’opera riprodotta dallo strumento stesso. In definitiva attraverso il pensiero e le pratiche dell’hi-end si scambia ostinatamente, ottusamente, colpevolmente il mezzo con il fine. Si opera con dolo un vero e proprio rovesciamento dell’ordine delle cose, ricollocando il nord a sud ed il sud a nord. Si trasferiscono intere tribù di aborigeni australiani a rabbrividire in gelidi igloo e, contestualmente, si deportano comunità eschimesi al centro di infuocati deserti australiani. C’è più di qualcosa che è come minimo vanamente ozioso, se non addirittura perversamente deviato in tutto questo sprezzo dell’arte. Immaginate quali forme potrebbe assumere quest’idea applicata, ad esempio, all’esperienza del viaggio. Prendere un treno, iniziare a testare poltrone di prima e seconda classe, non mancando di fare i dovuti raffronti. Valutare attentamente cessi, finestrini e carrozza ristorante. Tormentare i controllori con domande sulle loro divise e sui moduli prestampati di Trenitalia. Poi, per puro spirito d’indagine funzionale, tirare il freno d’emergenza seminando il panico in tutto il convoglio. Infine, ritrovarsi alternativamente alla stazione di Battipaglia, Genova Brignole o Roncobilaccio senza averlo mai scelto, semplicemente perché è capitato. Ditemi voi se si può vivere così.

Gianluca Becuzzi