INDUSTRIAL (D)EVOLUTION
La revisione storica di un genere musicale
(Seconda parte)

Nel precedente articolo avevamo tracciato un breve profilo storico sulla travagliata interpretazione del termine “industrial”, nel corso dei suoi quasi 40 anni d’impiego. Questo excursus ha evidenziato come, in alcuni casi, se ne sia travisato il senso originario per leggerezza e pressappochismo, mentre in altri, al contrario, si è trattato di un’operazione di depistaggio non priva di dolo, sia che il fine fosse di natura commerciale o negazionista. Ad ogni modo, nei decenni, questi processi hanno generato caos e disorientamento tale, da rendere la categoria industriale un campo minato da mille equivoci. In questa seconda parte, scenderemo più nel dettaglio di alcuni casi specifici per mettere qualche puntino in più sulle “i”. Ma per prima cosa, ribadiamo subito quello che è il fulcro critico del nostro pensiero.

Adi Newton
Adi Newton

Ogni movimento artistico che si possa definire tale, in musica e fuori da essa, esiste per un tempo “x” in uno spazio storico-culturale “y”. Le ragioni del suo essere sono determinate dalle dinamiche che lo relazionano, in termini di intervento attivo, tanto a ciò che l’ha preceduto, quanto al proprio presente. Terminata questa fase, sotto il profilo sostanziale, quel dato movimento esaurisce la propria spinta creativa-motivazionale e cessa di esistere. Da quel momento in poi, la sua persistenza, assume il carattere della posterità formale, della maniera o, più tardi ancora, del revival. Nel caso dell’industrial, come abbiamo detto, le coordinate “x-y” lo collocano, prevalentemente, in  Inghilterra e States, tra la seconda metà dei ’70 e i primissimi degli ’80. Ma, come sempre accade, se ci si dovesse affidare ciecamente alle dichiarazioni degli artisti, o ai rooster delle label, non se ne verrebbe mai a capo. Accade infatti che, da una parte, alcuni tra i protagonisti della prima ora, in nome di uno spirito d’autonomia assai diffuso, neghino fin da subito la propria appartenenza al movimento, mentre altri soggetti, a posteriori, pretendano di saltare su un treno che non è mai passato dalla loro stazione, trattandosi di ragazzini che suonano simil-Rammstein, gabber truzza o hipster-noise raffazzonato. Quindi, meglio ragionare criticamente con la propria testa, lasciando da parte ego esondanti e autoposizionamenti velleitari.

Resta il fatto che, fin dall’inizio, casi che si prestano all’equivoco critico non sono mai mancati. Ad esempio, i due album più noti della prima fase di Clock DVA Thirst (1981) e Advantage (1983), suonano effettivamente più post punk che industrial. Bisogna infatti andar a riesumare le primissime pubblicazioni in cassetta della formazione di Sheffield (ristampate in box di 6 LP nel 2012 da Vinyl On Demand con il titolo Horology – DVAtion 78/79/80) per capire perchè Clock DVA siano considerati, a ragione, tra i capostipiti del genere. Alla stessa maniera, l’abbrivio discografico di Death In June con The Guilty Have No Pride (1983) e Burial (1984) è stilisticamente più prossimo alla Factory che all’Industrial Records, ed è solo dopo l’interlocutorio Nada (1985) che, con il supporto di David Tibet, Douglas P. riesce a cesellare compiutamente quel suo marchio distintivo mantenuto, fin troppo ostinatamente, fino ai giorni nostri. Ci son poi le complicazioni d’ordine cronologico. Tipo, come si fa a non considerare fondamentale l’apporto estetico di Current 93, una delle sigle più brillanti e longeve emerse dal panorama qui in esame? Eppure, l’album d’esordio Nature Unveiled è datato 1984, un po’ tardi per rientrare nel novero delle “opere apripista”, considerando che le prime registrazioni “casalinghe” dei Cabaret Voltaire risalgono a ben dieci anni prima. Come del resto, risale al 1984 anche Scatology, prima prova sulla lunga misura degli indimenticabili Coil. Vale la pena di ricordare inoltre che, in epoca pre-web, anche la collocazione geografica poteva incidere sui tempi di recezione-circolazione delle informazioni, penalizzando coloro che si trovavano in aree periferiche rispetto all’epicentro culturale di un dato fenomeno. Nel caso dell’industrial, però, la risposta europea non tardò più di tanto, vedi anche l’esempio dell’Italia: Maurizio Bianchi/MB, Mauhtausen Orchestra, Giancalo Toniutti, Enrico Piva/Amok, T.A.C., Tasaday, F:A.R. etc. Tutte realtà già attive agli albori degli ’80.

William Bennett
William Bennett

Ci sono poi tutta una serie di posizionamenti che, per esser chiariti, necessiterebbero una trattazione specifica. Ad esempio … In che senso parliamo di industrial rispetto al paradossale-ironico situazionismo di Laibach? Perchè Cabaret Voltaire si sentono in dovere di suonare cover di Velvet Underground e The Seeds? Cosa ci fa una popstar come Marc Almond in tanti album post-TG? Per quale ragione il rock dinamitardo di Jim Thirlwell/Foetus viene solitamente mappato nella grey area? È forse più corretto considerare i Neubauten come una sorta di no wave berlinese, piuttosto che altro? Come si giustifica la presenza di Elisabeth Welch e Dorothy nel catalogo Industrial Records? Daniel Miller da che parte sta? Bisogna vederlo come l’eminenza grigia di Depeche Mode, il danaroso boss di Mute, o come l’autore della ballardiana Warm Leatherette, il primo sodale di William Bennet in Come, il sostenitore ad oltranza di Boyd Rice-NON, nonchè il fondatore di GreyArea, la collana Mute che ha ristampato tutti i titoli basilari del primo industrial?

Quello che intendo dire è che non è possibile, perlomeno non sempre e non comunque, tracciare una linea di demarcazione netta che divida chi è di qua e chi di là, chi è pre e chi post, quanto piuttosto, è opportuno cogliere il senso generale delle dinamiche storicho-artistiche, contestualizzarlo rispetto al caso specifico, e comprendere così che certe esperienze, al di là di tutto, sono interne o contigue alle estetiche industrial, mentre altre, evidentemente ed assolutamente no, checchè se ne dica. La qual cosa, in se, non implica chiaramente nessun giudizio di valore. Personalmente, ad esempio, ho sempre apprezzato molto l’opera di Diamanda Galàs e Mick Harris, tanto per citarne due per niente a caso, ma non li ho mai considerati parte dell’industrial e anzi, farlo mi parrebbe, oltre che forzato, anche riduttivo rispetto alla specificità e all’ampiezza del loro spettro creativo. Con questo, non voglio porre nessuna moratoria sull’utilizzo del termine “industrial”, con o senza post, ma dovrebbe essere chiaro a tutti che, quando lo si applica al di fuori del periodo storico di pertinenza, non stiamo apponendo un’etichetta ma bensì utilizzando un’aggettivazione suggestiva. Cioè, indichiamo una qualche similitudine formale, non una corrispondenza sostanziale. Quando da bambino facevo le bizze, mio nonno diceva: “questo bimbo è un garibaldino”, pur sapendo che Garibaldi è morto 80 anni prima che io nascessi. Ecco, il senso è questo.

David Tibet
David Tibet

Ci sono poi perlomeno altri due fattori ad alta incidenza da tener nella debita considerazione: l’evoluzione e l’usura. Con evoluzione, o involuzione, dipende dai casi, intendo riferirmi a quel processo di cambiamento che nel tempo porta, più o meno coscientemente-volontariamente, un artista a mutare i propri orizzonti creativi. Accade spesso, e quando non si tratta di posizionamenti dettati da calcoli di convenienza, un certo bisogno di mobilità è del tutto comprensibile e, in linea di principio, anche auspicabile. Ad esempio, è pacifico che, dopo l’esperienza con i Bad Seeds di Nick Cave, Blixa Bargeld ha indirizzato i Neubauten verso prospettive artistiche progressivamente sempre più distanti dai clangori brutisti degli esordi. Così come, l’ascoltatore adeguatamente informato sa che attualmente, ad un concerto degli Psychic TV, si suona rock psichedelico, con tanto di solo di chitarra old fashion, ovvero, ciò che l’industrial aveva stigmatizzato come “la peste bubbonica della musica”. Nurse With Wound, Current 93 e Coil hanno da sempre fatto dell’eclettismo la propria bandiera, Test Dept. hanno toccato svariate derive della DJ culture, in nome di una precisa continuità ideologica, metre SPK, con risoluzione suicida, chiusero la propria carriera nel peggiore dei modi possibile. Questo tanto per riferire solo alcuni casi. Il cambiamento è l’unica costante certa dell’esistenza, il suo potere può essere rigenerante per alcuni e distruttivo per altri, tutto dipende da come lo si incanala.

Al contrario, opporsi stoicamente allo scorrere del tempo, di solito, non produce alcun effetto positivo. Afferisce a questo posizionamento il secondo fattore citato, quello dell’usura. Basterebbe pensare alla parabola discendente dei francesi Die Form, prosciugatisi nel ripetere fino allo sfinimento la medesima formuletta electro-festish/SM, per recepire il monito. Ma allarghiamo l’orizzonte e prendiamo ad esempio il caso del power electronics/harsh noise, categoria nata all’inizio degli ’80 come specializzazione-estremizzazione del lato più ferale e incompromissorio  dell’industrial. Sarà un caso se William Bennet, prima di passare ad altro con Cut Hands, nell’ultima fase di Whitehouse, prima tra tutte le sigle p.e., era uso salire sul palco per inscenare deliberatamente la parodia di se stesso e di tutta la categoria? O se preferite, vi pare possibile che una formula  basata sul connubio di rumore elettronico informe e immaginario shock, reiterata in variazioni minime per più di tre decenni, possa scuotere o aggredire chicchessia? O è più probabile che, nel tempo, la reitrazione disinneschi totalmente l’ordigno estetico riconducendo tutto a vuota maniera e larghi sbadigli di noia? Guardandosi intorno, un ragionamento analogo si potrebbe applicare anche alla sconfortante piattezza di gran parte dell’attuale panorama dark ambient e a quello della brown area/military folk, tutto mimetiche, rune e soporifera routine. Che si punti sul personaggio del sociopatico o su quello del nazifascista, poco cambia. Il supposto effetto scandalo dell’antieroe, è talmente fuori tempo massimo, da rovesciare l’intenzione “offensiva” in esito demenziale. Perlomeno, così appare sotto il profilo artistico, magari se lo sguardo non è rivolto alla musica ma alla sociologia, allora qualche motivo di interesse, forse … Ad ogni modo, per mettere K.O. la platea attraverso idee mordaci e gesti significanti, serve una strategia basata sulla sorpresa, una tattica che è sempre riuscita a pochi e per poco tempo. L’arte della provocazione non si replica, si usura.

Andrew Liles + Steven Stapleton
Andrew Liles, Steven Stapleton

In una prospettiva più ampia, resta da definire il senso che vogliamo attribuire all’eredità lasciata dal primo industriale, a come cioè, vogliamo inquadrare le varie derive generazionali ed identificare i postumi dell’industriale stesso. Dovessi indicare una via preferenziale in base ai miei gusti, direi sicuramente che le forme più stimolanti del post industrial si trovano in quell’area “grigia” (nel senso di defilata e difficilmente etichettabile) dove vengono liberamente raggruppate sigle come: Zoviet France, Organum, The Hafler Trio, T.A.G.C., Cranioclast, Maria Zerfall, P16 D4, Maeror Tri, RLW-HNAS, Etant Donnes, John Duncan, Daniel Menche. Oppure, nell’ultimo decennio, i vari progetti di Martin Bladh, a proprio nome e a nome collettivo con IRM e Skin Area, o anche alle produzioni di Andrew Liles e ambiti limitrofi. È questo il versante talvolta meno appariscente sotto il profilo iconografico, ma certamente più intrigante sotto quello della sperimentazione sonora. Più frequentemente, nel corso dei decenni, c’è stato chi all’industrial si è riferito in termini di ripresa delle forme, ottenendo occasionalmente buoni risultati, pur senza niente aggiungere a quanto già detto. In questo senso ricordiamo, a cavallo tra fine ’80 e inizio ’90, i lavori di Dirk Ivens, prima come Klinik e poi come Dive. Nel secondo caso l’artista belga, con il suo personale cocktail di Suicide-SPK-Esplendor Geometrico, ha dato l’abbrivio al cosidetto powernoise o rythmic noise, stile caratterizzato dalla saturazione delle partiture ritmiche, promosso dai cataloghi di label come Ant-Zen e Hands. Guardando al panorama odierno si potrebbe parlare di post industrial per le due “biondone terribili” Pharmakon e Puce Mary o per gli americani Wolf Eyes? Forse, ma se, in riferimento a questi e a profili analoghi, qualcuno preferisse parlare più genericamente di noise saltando il rimando all’industrial, personalmente, non avrei niente da eccepire. Infine, si registrano anche episodici incontri generazionali di alto profilo, come quello testimoniato dall’album The Iron Soul Of Nothing (2011) tra Nurse With Wound e Sunn O))), o alcune belle sorprese, vedi ad esempio l’eccellente Where Suns Come To Die (2015) di Sol. La rassegna particolareggiata potrebbe continuare a lungo, ma credo che il senso del nostro ragionamento sia stato ormai chiarito.

In definitiva, si può supporre che ogni frase formulata in tedesco faccia riferimento alla filosofia o all’economia? E ciò che viene espresso in italiano abbia per soggetto il cibo o la moda? Nessuno è così grossolano da credere a questo, e dunque bisognerebbe capire perchè in molti sembrano invece convinti che, per suonare industrial, basti passare due macchinette attraverso un distorsore e mettere un’immagine atroce in copertina. Se invece che belare dietro al gregge ci si fermasse un attimo ad osservare e riflettere … Ma si sa, macinare grosso è meno faticoso, comporta meno oneri e meno responsabilità. Dunque, tanto vale legittimare ogni attribuzione, anche se basata su corrispondenze remote, vaghe e superficiali? Dobbiamo rassegnarci e rendere le armi? La tentazione, lo confesso, ci sarebbe. Poi però, capita di trovarsi davanti a platee stordite, disorientate, inconsapevolmente asservite a logiche di marketing, sepolte vive da menzogne grandi quanto montagne, e allora, come campane a morto, torna a risuonare nella testa il monito della mia amica Vanessa: “se le mosche ti guardano, la merda sei tu”.

Gianluca Becuzzi