DIRITTO DI CRITICA
Sei regole essenziali per applicarlo correttamente

Concludevo il mio precedente articolo affermando: “… A noi spetta (…) vigilare sul presente, esercitando costantemente il nostro diritto di critica, dato che questo è quanto ci è ancora concesso”. La questione del diritto di critica (l’etimologia della parola “critica” viene dal greco “krino”, capacità di distinguere) è centrale a tutta la questione dell’arte, della musica e, volendo, sconfina anche oltre. La facoltà di discernimento era importante ieri e lo è ancora di più oggi che i meccanismi di partecipazione orizzontalista del web hanno concesso spazi d’intervento aperti a chiunque. Una questione antica ma ancora attualissima. Dunque, andiamo subito ad elencare in sei punti essenziali le regole base del diritto di critica, per poi passare ad approfondirli meglio uno ad uno.

1) La critica è un diritto legittimo quando è riferita all’operato di figure pubbliche, quali sono artisti, personaggi dello spettacolo, giornalisti, figure della vita politica e civile.

2) Non sono mai soggette a critica le scelte private i cui effetti ricadano unicamente su chi le compie.

3) La critica è tale quando è supportata da riflessioni-argomentazioni adeguatamente articolate-informate, e in questo si differenzia tanto dalla lode gratuita, quanto dall’offesa ingiustificata.

4) La critica può avere, a seconda dei casi, natura soggettiva o oggettivizzante ed è sempre e comunque rivedibile a seguito di un confronto dialettico che si ponga sullo stesso piano.

5) La migliore misura cautelativa nei confronti della critica è l’autocritica.

6) L’individuo oggetto di critica, dotato di un sano equilibrio psico-emotivo, coglierà la critica sensata come opportunità di crescita e non come affronto personale.

Punto 1. Chiunque pubblichi un libro, un disco, faccia uno spettacolo teatrale, un comizio o ricopra una carica pubblica, va ad occupare volontariamente-consapevolmente uno spazio condiviso che può essere, a seconda dei casi, di maggiore o minore visibilità, ma che implica sempre e comunque un tacito patto di esposizione critica. Non esistono al mondo tribunali che possano condannare nessuno ad assumere il ruolo di figura pubblica, e dunque, non correndo obbligo di nessuna natura, meno che mai giuridica, chi non desidera che i suoi versi poetici, le composizioni musicali o le performance attoriali siano oggetto di giudizio altrui, non deve far altro che limitare queste espressioni, ed altre analoghe, al proprio ambito privato. In fin dei conti è bello anche cantare sotto la doccia e leggere le fiabe ai propri figli, o questo ormai non basta più a nessuno? Va da sé che, nel momento stesso nel quale si autorizzi un editore a pubblicare ciò che fino ad ieri si strimpellava nello studio domestico, o si carichi su pornhub quello che si è filmato con la moglie/marito in camera da letto, si varca palesemente il confine che divide il privato dal pubblico, con tutte le conseguenze del caso. Un attimo prima, doti canore e performance erotiche non erano soggette al giudizio della platea, perché la platea non c’era, un attimo dopo sì. Mi pare che con questo non si chieda di capire a fondo i risvolti più criptici della filosofia aristotelica, no?

Punto 2. Qui, effettivamente, la questione più che estetica si fa etico-morale e la enuncio a partire da una convinzione personale che è in evidente conflitto con il pensiero rappresentato da molti altri, ma dato che scrivo per Frastuoni e non per Avvenire credo di averne licenza. Ovvero, ogni individuo è libero di condurre la propria esistenza come meglio crede, ed ogni scelta che non pregiudichi la libertà o la dignità altrui è lecita, anche quando si configuri come lesiva per chi la compie. Per questa ragione ritengo che nessun atto privato possa essere oggetto di giudizio critico. Esemplificando: non è soggetta a critica la scelta individuale, che sia davvero libera e autonoma, di prostituirsi. Al contrario, sono soggette a critica le diverse posizioni politiche che riguardano la riapertura o meno dei bordelli.

Punto 3. Il linciaggio verbale, l’insulto gratuito, l’ingiuria e il dileggio finalizzato all’offesa non sono evidentemente gli strumenti con i quali si qualifica la critica. Come non lo è neppure una raffica-a-mitraglia di “grande”, “mitico”, “spettacolare”, “fighissimo” etc. In entrambe i casi siamo alla presenza di aggettivazioni sbrigative che transitano dal bar sport ai profili meno “illuminati” dei social network. La critica, per poter esser definita tale, deve essere il frutto di una riflessione estetica compiutamente espressa attraverso un’articolazione argomentata e, sopratutto, informata. Non importa se la formazione specifica della quale si dispone è passata attraverso un percorso accademico o autodidattico, ma non esiste critica senza strumenti d’analisi adeguati. Per portare il mio caso, confesso di non essermi mai interessato alla danza e, conseguentemente, la mia ignoranza in materia è pressochè totale. Mi è però capitato recentemente di assistere ad una performance di danzatrici contemporanee al termine della quale un’amica presente in sala mi ha chiesto: “che ne pensi?” e io, che sono una persona onesta, le ho risposto: “mi spiace, in questo caso non mi è dato pensare, al massimo posso riferirti la mia impressione”. Avrei dovuto risponderle prontamente “Fighissime”? Oh, brutte, effettivamente, le danzatrici non lo erano per niente …

Punto 4. Siamo arrivati a toccare un nervo scoperto. E allora lo dico subito: non è accettabile che si utilizzi la celebre locuzione latina che recita “de gustibus non disputandum est” per chiudere sempre e comunque qualsiasi disputa estetica. Quella frase significa “è inutile sindacare sui gusti soggettivi”, la qual cosa non esclude che esistano metri diversi dalla soggettività per misurare qualità e peso oggettivi delle cose. L’esercizio critico non può essere ricondotto unicamente alle ragioni della sensibilità personale, della “pancia”, escludendo così le tensioni oggettivizzanti della “testa”. Caso A: affermazione – “la musica dei Puffi mi piace tantissimo”. Risposta – “a me no”. Qui è tutto corretto, dato che le parti dialogano evidentemente sul medesimo piano della soggettività. Caso B: affermazione – “Bob Dylan è una delle figure più importanti della musica popolare del ‘900”. Risposta – “odio quell’ebreo di merda”. In questo secondo caso, invece, il confronto non avviene sullo stesso piano. La prima affermazione è di natura storico-critica e tende all’oggettivazione, la seconda, palesemente no. Oltretutto, va detto che una disputa oggettivizzante su un caso come quello di Dylan, si chiuderà rapidamente, a fronte degli svariati elementi provati che cristallizzano l’oggettività della prima affermazione. Parola di un non-fan di Dylan. E allora il gusto soggettivo non serve a niente? È solo un fardello inutile? No, al contrario, il gusto personale è un prezioso strumento di orientamento, è la bussola che tutti noi utilizziamo per individuare il nord e il sud delle nostre attitudini estetiche, per trovare l’habitat artistico a noi più congeniale. È in base a gusto e sensibilità se ognuno di noi ha sviluppato passioni e competenze in una data disciplina piuttosto che in altre, se io mi occupo di musica e non di danza o teatro. Le specializzazioni portano competenza e capacità di giudizio, a condizione di non confondere il proprio orticello con l’universo, mantenendo così uno sguardo vigile e curioso sulla complessità del circostante. La faziosità o “sindrome del fanzinaro” rappresentano il lato buio, la degenerazione di questa umoralità lunare, ma sta a tutti noi riconoscere e cautelarsi dall’inaffidabilità di tali forme di pseudo-critica, anteponendo la ragione e la ponderatezza alle logiche di cricca da curva ultras. Poi, c’è anche chi è permanentemente posseduto dal demone del cattivo gusto, e lì, si sa, a poco servono rituali sciamanici ed esorcismi.

Punto 5. Fin da giovanissimo, ho sempre avvertito simpatia ed ammirazione verso quei giornalisti che ponevano domande intelligenti ad artisti che rispondevano altrettanto acutamente, mostrando di aver lucida coscienza di sè e del proprio operato. Esattamente al contrario, hanno sempre perso punti sul mio pallottoliere della stima, quelli che a domande telefonate rispondevano con banalità e sciatti stereotipi (vedi alla voce metallari lessicalmente limitati ai due termini due “precisione e potenza”). Da adulto ho razionalizzato questo processo intuitivo, arrivando così alla conclusione che la capacità autocritica è una grande dote, fondamentalmente perché tutela il mondo dall’essere sommerso sotto un diluvio di fango. Ovvero, un artista e un critico che si interrogano costantemente sui rispettivi ruoli, pongono in essere tutta una serie di filtri autocensori capaci di garantire a tutti un livello qualitativo superiore. Al contrario, un critico sbracato e un artista troppo autoindulgente non garantiscono un bel niente, e anche qualora, occasionalmente, dovessero azzeccarci, lo farebbero fortuitamente. Ora, ditemi francamente chi di voi pensa che le sorti dell’arte si debbano disputare, tipo roulette russa, a colpi di culo.

Punto 6. Altra questione spinosa. La pongo nella doppia prospettiva di critico, prima, e di artista, poi. Se io muovo una critica negativa ma sensata, informata, argomentata, articolata e magari anche garbata nei confronti dell’opera Y dell’artista X e l’artista X reagisce come se avessi insultato pesantemente lui e sua madre, la sua condotta ha una sola spiegazione possibile: il suo ego viene prima dell’amore e della cura per ciò che fa. La qual cosa lo qualifica più come soggetto psichiatrico che artistico. In veste di artista, invece, ho sempre trovato di pari utilità sia le osservazioni che indicavano i punti di forza, che quelle che indicavano quelli di debolezza del mio lavoro. Certo, seguire le istruzioni correttive implica un riconoscimento d’autorevolezza nei confronti del critico e del suo parere, ma devo dire che, anche nei casi nei quali questo riconoscimento non fosse proprio del 100%, ho sempre trovato più elegante non controbattere. In tutta onestà le recensioni ricevute che ho trovato veramente mortificanti, non sono quelle di segno negativo, che, in fin dei conti, sono state pure poche nell’arco dei miei 33 anni di attività discografica, ma piuttosto quelle dove mi si elogiava sbagliando palesemente tutte le coordinate estetiche e i riferimenti. E purtroppo mi è capitato. Perché è chiaro, gli scivoloni li prendono gli artisti ma anche i critici, tanto che pure la critica stessa è sottoposta al vaglio critico, però attenzione … Questa è un’indicazione da seguire con estrema cautela perché si presta ad equivoci pericolosi.

La critica deve rimanere libera di esercitare il proprio ruolo e deve assolutamente sottrarsi dalla condizione di ricattabilità. Non è comprando spazi pubblicitari ed esigendo solo responsi lusinghieri, per clientelismo, conoscenza amicale o chissà cosa, che il gioco deve funzionare. Tutto il contrario, per avere piena credibilità bisognerebbe esser poco teneri con chi è palesemente incapace e fazioso, iniziando a sfoltire le fila dei vorrei-ma-non-posso anche solo in base all’analisi logica e grammaticale di quanto si leggere in giro. Utopia? Forse, ma preferisco vederla in questa prospettiva, piuttosto che fare un test pratico aprendo, a mio nome, un sito di consultazione ginecologica online, per dimostrare la sovrana impunità dell’incompetenza.