PAUL AUSTER: (1947-2024)
“Nulla è reale tranne il caso”

“Cominciò con un numero sbagliato, tre squilli di telefono nel cuore della notte e la voce all’apparecchio che chiedeva di qualcuno che non era lui. Molto tempo dopo, quando fu in grado di pensare a ciò che gli era accaduto, avrebbe concluso che nulla era reale tranne il caso.”

È l’incipit di “Città di vetro”, apparso come racconto nel 1985 e poi pubblicato due anni dopo come primo dei tre episodi che compongono “Trilogia di New York”, un’indagine che si rivela un viaggio iniziatico nei grovigli delle identità, dove le copie si moltiplicano a dispetto dell’originale, come nei labirinti di specchi del luna park, diventato in poco tempo uno dei testi di riferimento della narrativa americana postmoderna; un incipit fulminante, che potrebbe, con una certa dose di azzardo, rappresentare anche il manifesto della letteratura di Paul Auster, scomparso dopo una lunga malattia il 30 aprile 2024 a Brooklyn all’età di 77 anni, al termine di una vita tribolata fatta di matrimoni avventurosi e divorzi, drammi personali, miseria e relativa agiatezza, mestieri più vari e che infine lo ha visto paladino della nuova letteratura americana a fianco di Don De Lillo e Thomas Pynchon ma completamente diverso da loro, meno solipsista e misantropo Auster, più propenso ad abbracciare le giuste cause, capace di creare un proprio mondo artificiale dove Jacques Lacan, Samuel Beckett ed Edgar Allan Poe si danno idealmente la mano e le storie vere si intrecciano con quelle fittizie. Una voce fantasma al telefono, dicevamo, e la “musica del caso” a dettare lo spartito di vite vissute spesso rasoterra, quasi per inerzia.

Come quella di Sid (“La notte dell’oracolo” 2004), uno scrittore che, dopo aver acquistato un taccuino, è impegnato a scrivere un romanzo che ben presto si intreccia con la sua vita fino al punto dal rendere indistinguibile la finzione dalla realtà; o come quella di John Nash (“La musica del caso” 1990), che dopo aver incontrato un professionista del poker e perso una partita giocata nella magione di due eccentrici miliardari, Flower e Stone (la scelta dei nomi, in Auster, non è mai lasciata al … caso), partita che aveva come posta la libertà, si vede costretto dai due proprietari a costruire un muro con le pietre di un vecchio castello. O come la vita dell’August Brill di “Uomo nel buio” (2008), un critico letterario in pensione che, per dimenticare le tragedie della vita e dopo aver letto per una vita i libri degli altri, si inventa un romanzo nella sua testa con protagonista uno sfortunato prestigiatore; o il Nathan Glass di “Follie di Brooklyn” (2005), impegnato a scrivere “il libro della follia umana”, peccato che il caso, sempre lui, abbia deciso diversamente. Il romanzo nel romanzo, quindi, che nella prosa di Auster sancisce, una volta per tutte, che il mondo è governato dall’imprevedibile, sempre in agguato nel percorso che ci è dato da compiere nella vita, in un gioco di ruolo aperto a infinite possibilità alternative, dove tutto sembra identico e fungibile. È nella solitudine che i personaggi scoprono il doppio, in un eterno processo di scrittura e riscrittura della propria esistenza che è anche ricerca dell’io più profondo, celato dietro innumerevoli maschere quotidiane, perché poi “è solo nel buio della solitudine, che inizia l’opera della memoria, e la memoria è lo spazio in cui le cose accadono per la seconda volta” (da “L’invenzione della solitudine” 1982).

E allora non può certo essere un caso se “4321” (2017) rappresenta il “libro” di Paul Auster, racconto dell’esistenza umana e delle sue innumerevoli possibilità, e la combinazione delle vite dei quattro Ferguson, un cammino che non può procedere in linea retta ma è frutto di porte che si aprono e chiudono sulla spinta della forza imponderabile di accadimenti che non possono essere previsti né tantomeno controllati, è l’ideale sintesi di quella del loro autore, laddove “… il mondo effettivo era solo una piccola parte di mondo, poiché la realtà consisteva anche in quello che sarebbe potuto succedere ma non era successo …”. E se, come direbbero i teorici del Gestalt, l’insieme che ne risulta è diverso e maggiore della somma delle singole parti, la percezione combinatoria che ipnotizza il lettore sembra essere stata plasmata dall’opus di uno scrittore-demiurgo, l’ultimo sopravvissuto dopo la scomparsa dei suoi personaggi, abitante di una New York reale e allo stesso tempo fantastica, popolata da prosaici fantasmi di un passato nostalgico e magari non ancora irrimediabilmente corrotto dai cambiamenti di una gentrificazione selvaggia.

E se il rischio dell’autocompiacimento, del mero giochino meta-letterario, è dietro l’angolo, è la stessa struttura della prosa di Auster a venire in soccorso dell’autore; una prosa che non accarezza mai il lettore con fare condiscendente; una prosa spesso colloquiale, strutturata in edifici sintattici che, anche quando assumono una forma extralarge, risultano al contempo leggeri, costruiti con paragrafi ritmati che paiono guidati da una musica ammaliante e sincopata di sottofondo. Già malato, Paul Auster concepisce il suo ultimo romanzo nella sua amata Brooklyn. E, se nel corso della sua carriera letteraria i giochi di specchi narrativi sembrano in definitiva avere avuto lo scopo di rivelare frammenti di sé attraverso i personaggi e le loro esistenze, allora “Baumgartner” (2023) non può che rappresentare il bilancio di una intera vita, che chiude idealmente il percorso iniziato con “L’invenzione della solitudine”, e l’ironia e il fatalismo che fanno da sfondo alla vicenda umana del professore di filosofia Seymour Baumgartner, sono gli stessi del suo inventore, che in un letto d’ospedale, nell’attesa dell’inevitabile, non può che specchiarsi in quella sorta di malattia che lo ha accompagnato negli anni.

“Scrivere è un’influenza, un’infezione dello spirito, e può colpire chiunque in qualsiasi momento.” (Paul Auster). Qui l’autore sembra ritrovare la sua identità ebraica più complessa e nascosta, in cui ironia e fatalismo fanno da sfondo alla vicenda umana del professore di filosofia Seymour Baumgartner, che da dieci anni, dal giorno in cui la moglie Anna — traduttrice e poetessa dal talento vibrante e pudico — è morta in un banale incidente di mare, a Capo Cod, ha sostanzialmente smesso di vivere, e, nell’attesa dell’inevitabile, non può che dedicarsi a quella sorta di malattia che è la scrittura. Già, perché “Scrivere è un’influenza, un’infezione dello spirito, e può colpire chiunque in qualsiasi momento.” (Paul Auster). I giochi di specchi narrativi di Auster sembrano avere lo scopo di rivelare se stesso e frammenti della propria vita attraverso i suoi personaggi e le loro esistenze e una prosa sempre originale e intensa anche e soprattutto in questo suo Baumgartner che condensa la sua tumultuosa esperienza di vita in cerca di nuove ispirazioni o della pace prima della fine. Compone periodi che toccano le 554 parole, riuscendo a non sbilanciare la frase, a strutturare edifici sintattici giganteschi ma leggeri, composti, cristallini. E poi lo stile vero e proprio, il registro. Raramente Auster sceglie di essere espressivo, quasi mai si permette parole forti o aforismi (e, nelle interviste, ha dimostrato che se volesse riempirci di belle frasi da isolare e citare sui social ne sarebbe capace). Il registro è rigidamente medio, a un passo dalla banalità e da un grigiore che, tuttavia, nel ritmo complessivo dei paragrafi, vengono sempre scongiurati diventando musicalità e meraviglia.

August Brill è un critico letterario in pensione e vive nel Vermont a casa della figlia per rimettersi da un incidente automobilistico che l’ha reso quasi invalido. Soffre di insonnia. Per tenere occupati i pensieri nelle ore in cui giace immerso nel buio, si inventa storie che lo conducano lontano dalla sua vita, lontano dalle storie vere che preferirebbe dimenticare: la morte recente della moglie Sonia e l’orribile assassinio, in Iraq, del ragazzo della nipote, Titus, che lavorava laggiù. Brill ha passato la vita a leggere i libri degli altri e adesso prova sollievo a inventare romanzi nella propria testa: immagina così un’America che si sfalda nel 2000, al momento della prima contestatissima elezione di George W. Bush. In questo paese parallelo, diviso tra stati che da quattro anni si combattono in una devastante guerra civile, non è avvenuto l’attentato dell’11 settembre 2001 e il conflitto in Iraq non è mai esistito. Nelle ore centrali della notte il percorso di Owen Brick, il protagonista di questa vicenda, un simpatico prestigiatore coinvolto, suo malgrado, in una trama alla quale non riesce a sottrarsi, si conclude tragicamente. E quando la nipote, Katya, anch’essa insonne, lo raggiunge nelle prime ore del mattino, Brill capisce che non può più sfuggire ai racconti veri, alla storia della sua vita. Il “romanzo nel romanzo” per me è la cosa migliore del libro; sviluppa il tema secondo cui “il mondo è governato dal caso. L’imprevedibile è in agguato ogni giorno nella nostra vita, una vita che può esserci sottratta in qualsiasi momento – e senza motivo” in un crescendo avvincente, in cui la vita di Nick improvvisamente deraglia (a un certo punto va in aeroporto e prende a caso il primo volo che parte, trovandosi a Kansas City) fino al punto di ficcarsi in un guaio tremendo. E qui Sid, non sapendo come andare avanti, ed entrato in crisi anche per altri motivi, si blocca ed anzi fa a pezzi il taccuino; nel che intravedo un certo autocompiacimento austeriano.

Maurizio Fierro

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