Categoria: Interviste

NANABANG!
Il segreto meglio custodito dell’underground bresciano

I Nanabang! sono uno dei segreti meglio custoditi dell’underground bresciano, una formazione che esegue una musica dagli arrangiamenti scarni ma evocativi. Andrea Fusari (voce, chitarre, armonica) e Beppe Mondini (percussioni e tastiere) compongono brevi bozzetti sonori, quasi mai superiori ai due minuti, che si rifanno alla grande stagione del pop/rock alternativo degli anni ’80 e ’90. I due musicisti collaborano insieme anche in un altro progetto, chiamato Gurubanana. Li abbiamo incontrati e posto loro alcune domande.

Prima domanda di rito: come vi siete formati? Vi conoscevate già prima di formare la band? Quali sono state le vostre precedenti esperienze musicali?

Andrea Fusari: Beppe Mondini l’ho conosciuto nel 2008 ai tempi del primo album dei Gurubanana. Avevo un buon numero di canzoni in demo, voce, chitarra e come base ritmica avevo utilizzato dei loop di batteria. Li portai a Giovanni Ferrario (produttore e musicista bresciano di esperienza nazionale e internazionale, tra le sue collaborazioni Scisma, Morgan, Cristina Donà, Cesare Basile, PJ Harvey, Hugo Race, Rokia Traore , n.d.a) che ne curò gli arrangiamenti e aggiunse vari strumenti. Registrammo nel suo studio sotto casa, ma per un paio di brani la base ritmica era da rifare e li registrammo live con un batterista ed un bassista. Il batterista era Beppe Mondini. Il progetto nasce come collaborazione tra me (sono io il Gurubanana) e Ferrario. Quando si trattò di passare alla fase live chiamammo ancora Beppe alla batteria. Io provengo da un lunghissimo percorso precedente come cantante blues negli Impossiblues, ma ho sempre ascoltato il rock nelle sue evoluzioni dagli anni ’60 in avanti.

Beppe Mondini: Io invece ho avuto tante band di musica originale, inizialmente esplorando generi musicali più estremi come metal e noise, ma poi mi sono appassionato anche al jazz, blues e suonato per anni musica folk. I miei primi gruppi sono stati Art Disorder e Les Petit Enfants Terribles.

Siete uno dei pochi casi in cui la stessa band, incide dischi e si presenta dal vivo sotto due nomi diversi, Nanabang! e Gurubanana. È solamente un vezzo o una necessità? Nei dischi ho notato una differenza, più scarne e meno arrangiate le canzoni dei Nanabang, dall’impianto più solido e più “radiofonico” (passatemi il termine) quelle dei Gurubanana. Che ne pensate?

AF: Dopo il secondo album di Gurubanana, Karmasoda (2010) portare in giro una band è diventato sempre più difficoltoso, sia per trovare spazi, sia per impegni dei componenti. La scelta fu di lavorare in modo snello ed essenziale, per cui formammo un duo, Nanabang!, il nome è derivato anche in senso letterale da quello della band completa, unendo Nana e Bang. Quando la musica che compongo viene arrangiata diventa Gurubanana, quando rimane minimale è Nanabang. I pezzi provengono tutti dalla stessa sorgente.

BM: Con Gurubanana è divertente dover arrangiare le cose per più persone, con Nanabang è tutto talmente ridotto all’osso che dobbiamo togliere il più che possiamo. Less is more …

Nel 2019 è uscito un doppio CD a nome “Nanabang!/Gurubanana: Life Of An Ant/Ear Refill”, inciso ancora con la collaborazione di Giovanni Ferrario. Quali erano i vostri obiettivi nel fare questo disco con entrambi i gruppi? Siete soddisfatti del risultato finale?

AF: Avevo da tempo pronti dei pezzi registrati come Gurubanana, ma non riuscivo a riunire una band per eseguirli. Nel frattempo dopo due album ed un EP come Nana Bang! avevamo altri pezzi pronti per un terzo album, ma sentivamo necessitassero di un miglioramento. Giovanni Ferrario si prese a cuore tale responsabilità, suonando ed arrangiando, tagliando e cucendo i mix di quello che sarebbe diventato Life Of An Ant. A quel punto, avevo due album che suonavano simili, sembrava giusto farli uscire assieme, uno split di due band, formalmente, ma tutti scritti e cantati da me. Per l’occasione riuscimmo finalmente a riunire una band per la promozione live (tanto per aumentare la confusione: Gurubananabang!), con Ferrario al basso e tastiere e Andrea Cogno (meteor e LPETZ) alla chitarra. L’album era in uscita il 1 marzo 2020, per cui nel giro di pochi giorni il covid ha cancellato qualsiasi possibilità promozionale. Non ho idea di come e quando riuscirò a fare ascoltare quei pezzi. Una ferita profonda, mi spiace perché ci sono dei pezzi che sono felice di aver scritto ma difficilmente riuscirò a suonare dal vivo.

BM: È uscito nel momento sbagliato, avevamo fatto anche una bella band … Però alcuni pezzi li portiamo dal vivo lo stesso, io amo in particolar modo Life Of An Ant.

A cosa è dovuta la scelta di cantare in inglese e di cosa trattano i testi?

AF: I miei ascolti portano a quello. Probabilmente non ho ancora esaurito una certa insofferenza al cantautorato anni ’70, con poche eccezioni, e la mancanza di un reale linguaggio «rock» nella tradizione musicale italiana, sempre con poche eccezioni. Quello che poi succede spesso, nei casi in cui il testo prevale, porta ad una disattenzione dall’aspetto musicale. A questo va aggiunta una presa di distanza dal pontificare la propria verità, per cui l’inglese, oltre che essere necessariamente più duttile nella scelta linguistica, rende possibile venature di ironia sottostante. I testi infatti per buona parte sono punti di vista ironici, osservare microcosmi per svelare macrocosmi, spezzoni di lezione di fisica o chimica, in effetti non ho mai esplicitato il senso di molti dei testi, ma questo permette ad ogni ascoltatore con pochi elementi guida, di aprire il proprio immaginario. A che pensi quando ascolti Dylan o i Pink Floyd? Non a quello che intendono dire, ma a ciò che senti tu.

A me le canzoni dei Nanabang! ricordano l’indie pop neozelandese degli anni ’80 e ’90, band come Tall Dwarfs, Verlaines, Chills, Clean. Sono cose che avete ascoltato? Quali sono le vostre ispirazioni musicali?

AF: No mai ascoltati. Ogni tanto arrivano riferimenti ad altri, tipo Felt, idem come sopra. I miei riferimenti, per provenienza, sono i sixties inglesi ed americani. L’americana, tipo Wilco, outsiders tipo Waits, Zappa, Beefheart, Billy Childish, il gospel, la black music.

BM: Della Nuova Zelanda conosco poco, mi piacerebbe andare a farci un giro! Le mie influenze sono sempre state al di fuori dai generi. Mi piace chi mescola le carte.

Avete altri progetti musicali oltre a Nanabang! e Gurubanana?

AF: Non al momento, non più.

BM: Io collaboro con più gruppi, sempre con pezzi originali. Gli Ottone Pesante che suonano metal estremo solo con i fiati e fanno concerti in tutta Europa, o Meteor che suonano canzoni compresse e velocizzate fino a durare al massimo un minuto. Attualmente mi diverto anche con autori di musica italiana; Fabio Dondelli ex Annie Hall e Dario Don’t dei Don Turbolento che l’anno scorso è uscito con un disco molto interessante.

Andrea, tu hai fatto parte anche dei Basement3, trio che ha pubblicato l’album “Naturalismo!” da me considerato miglior disco bresciano del 2022 e uno dei migliori dischi italiani dell’anno, ancora con Giovanni Ferrario in cabina di regia. Puoi parlarcene? Come mai dopo la pubblicazione vi siete sciolti?

AF: Con i fratelli Manfredini è stata una collaborazione molto creativa ed intensa. Ci siamo conosciuti a fine 2018, abbiamo formato i Basement3, trio psichedelico senza batteria, con loro avevo una empatia particolare, molto stimolante, ho scritto molti pezzi. Si basava tutto su un equilibrio sonoro tra basso e chitarra, molto fluido. Nel 2019 è uscito Permafrost Walkers e poi il secondo, Naturalismo! ad aprile 2022. Poi improvvisamente a giugno è uscito il bassista per impegni lavoro turni e l’equilibrio è svanito. Altra ferita profonda. Altri pezzi che non potrò suonare. Un’esperienza molto bella, della cui fine ho sofferto molto.

Avete altre occupazioni per sbarcare il lunario o riuscite a vivere di musica?

AF: Io lavoro come dipendente, suono da tantissimi anni e da subito ho capito che in questo ambiente se fai solo quello fai la fame. Non ci sono strutture, riconoscimenti, possibilità.

BM: È un bel casino sbarcare il lunario, anche non essendo musicista, figurati a farlo … oltre che suonare io insegno batteria in varie scuole.

Per finire, quali sono i vostri progetti futuri e obiettivi come Nanabang! e Gurubanana?

AF: Come Nana Bang! siamo in ripresa con l’attività live, stiamo lavorando a pezzi nuovi e spero a breve registreremo. Gurubanana in stand by, per ora, in futuro quando ci sarà occasione.

BM: Cerchiamo strade nuove, sempre.

Mario Clerici

 

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MUN
"Land"
(Autoprodotto, 2023)

I Mun sono una band barese nata nel 2015 e composta da Franz Valente (Voce e Weissenborn), Alessandro Caradonna (Chitarra), Roberto Zito (Basso), Fabio De Felice (Batteria). Il loro sound affonda le radici nel rock americano anno ’90, ma con uno sguardo al contemporaneo. Sono alla prima uscita discografica intitolata Land disponibile su tutte le piattaforme di streaming. Scambiamo quattro chiacchiere con Francesco Valente e analizziamo con lui le tracce dell’album partendo da alcune considerazioni generali.

INTERVISTA

Ciò che traspare dall’ascolto del lavoro nel suo insieme è l’omogeneità dei suoni e in parte anche del suo aspetto compositivo. L’arrangiamento dei brani sembra essere frutto di un lavoro meditato. Parlaci un po’ della genesi del disco.

Ciao Nino, volevo innanzitutto ringraziare te e Frastuoni per l’opportunità che ci state dando. La gestazione è stata lunga, il disco è formato principalmente da canzoni composte quando ci siamo formati nel 2015. 4 su 7 provengono dalle demo che avevo registrato in solitaria intorno al 2014. Mandai alcune demo a Fabio e Roberto, con cui avevo una band e … boom abbiamo ripreso a suonare insieme. Da queste prime session sono nate Vultures e Bad Trip, a quel punto alla seconda chitarra c’era Francesco Nocito. Subito dopo l’ingresso di Alessandro Caradonna nella band è nata I Love Anything. Quindi i brani che compongono Land sono abbastanza datati, ma li abbiamo scelti perché fotografano un periodo compositivo ben preciso e perché hanno un racconto sonoro comune e una protagonista, la Weissenborn. Molti brani dello stesso periodo sono rimasti fuori, così come molti dei nuovi, optando per questi brani che hanno un racconto comune.

I brani colpiscono anche per compattezza e precisione di esecuzione, il sound dell’album è molto loud e granitico. Dicci qualcosa delle sonorità in fase di produzione e delle scelte di mixaggio.

Beh devo confessarti che il mio piccolo sogno nel cassetto è un giorno diventare un produttore, mi diverto tantissimo a giocare con la musica. Quindi avevo già in testa che suono dovevano avere le canzoni, come gli strumenti dovevano essere posizionati e gli effetti da utilizzare. La parola d’ordine era: semplicità. Già in fase di composizione abbiamo cesellato fino allo sfinimento gli arrangiamenti, lavorando per la canzone affinché tutti gli strumenti fossero al servizio della stessa, senza inutili tecnicismi. Ognuno di noi ha contribuito al brano e alla sua riuscita. Da parte mia ho lavorato tantissimo, fino allo sfinimento sulle melodie, sono beatlesiano, un cuore pop, nel senso nobile e penso che una melodia che ti rimanga in testa, una voce che lotta con la potenza degli strumenti, sia un atto sublime. Quindi abbiamo mantenuto una semplicità di fondo, affinché potessimo lavorare in fase di mix con più libertà creativa. In questa fase Biagio Fumai, che ha registrato e mixato l’album, ci ha davvero aiutato a far uscire al meglio ìl potenziale delle canzoni, con competenza e passione. Altra linea che abbiamo seguito in fase di produzione e di mix, è quella narrativa. Abbiamo seguito le sensazioni e le descrizioni dei testi, cercando di lavorare anche su un piano visivo, quasi cinematografico. È questo l’approccio che abbiamo usato in tutto l’album. Forse è per questo che suona così compatto, fondamentalmente lo abbiamo immaginato come un film.

Togliamo subito le castagne dal fuoco con la domanda sulle influenze musicali. Il Seattle sound è fra i vostri ascolti? Quali altre band sono nel background dei vostri gusti personali di musicisti? A tal proposito dimmi se hanno in qualche modo influenzato il tuo songwriting o la tessitura del lavoro in fase di registrazione.

Ovviamente sì, il Seattle sound è nel nostro DNA, non si può estirpare. Poi ovviamente abbiamo altri ascolti, io per esempio sono un divoratore di musica, ascolto dal barocco agli Shellac, adoro la soul music, ed anche gli altri sono musicalmente onnivori. In questo album i grandi ispiratori sono principalmente due , forse tre. I Soundgarden e Mark Lanegan. A livello sonoro il faro è stato Superunknown, l’album perfetto forse l’unico del periodo ad invecchiare bene a non solo a livello compositivo ma soprattutto di sound, spacca ancora. Altri album dello stesso periodo sono invecchiati male a livello sonoro secondo me. Lanegan ha invece ispirato la scrittura, mi ha aiutato a trovare la mia voce. Home è forse la canzone dove la sua influenza è più evidente. Altra ispirazione è sicuramente Ben Harper ed in particolare l’album con i Relentless7, più che altro per l’utilizzo della lap steel in un contesto loud e meno acustico. Poi nell’album ognuno di noi ha portato il suo background di ascolti e influenze, che ripeto sono molto varie.

Il disco si apre con due brani tirati per poi placarsi, nel sound desertico e caldo di Vultures, a mio parere la traccia più a fuoco dell’album. Ce ne parli?

Vultures è l’unico brano nato completamente in jam e non scritto da me ed è rimasto fondamentalmente così come lo abbiamo scritto in principio. Ci sono brani che nascono per magia, Vultures è uno di questi, tutto è nel posto giusto, non è stata cambiata una nota. È stato l’ultimo brano ad essere mixato, perché volevamo prestarci un’attenzione particolare, sapevamo di avere un buon brano e volevamo farlo rendere al meglio. Questo è un brano di molte sostanze, di piano e di forte, silenzi ed esplosioni, un testo apocalittico e volevamo che la musica rispecchiasse le atmosfere del testo, l’approccio cinematografico di cui ti parlavo prima, su Vultures lo abbiamo estremizzato, ogni nota racconta qualcosa, una sensazione, un rumore. E poi l’arpeggio sulla strofa! Abbiamo costretto Alessandro a farlo esattamente uguale a come era stato suonato da Nocito in jam, una tortura. Ma credimi, cambiando anche una sola nota, sarebbe crollato l’intero brano. Che dirti, siamo molto soddisfatti e speriamo piaccia anche agli ascoltatori, così come il resto dell’album.

Parliamo dei testi, qual è il tuo approccio alla scrittura, cosa ispira maggiormente la stesura della canzone?

Solitamente nasce sempre prima la musica, cesello la melodia fino allo sfinimento. Essendo profondamente springsteeniano, cerco sempre una linea narrativa nei testi, mi piace l’idea di raccontare una storia e poi fare in modo che la musica la supporti, la evochi. I testi delle canzoni di Land seguono questa linea. Molto spesso mi ispiro a dei libri che ho letto e che mi hanno colpito particolarmente, al cinema, alle serie TV o a dei fatti di cronaca. Per esempio Vultures prende ispirazione da “The Walking Dead”, Home parla di un femminicidio ed è liberamente tratta dal libro “Sonata A Kreutzer” di Tolstoj, Night Vision dalla guerra in Afghanistan e in generale dalle guerre dimenticate, I Can’t Breathe dalla vicenda di George Floyd. Come avrai capito, il filo conduttore dell’album non è il bright side dei Monty Python, quanto il lato selvaggio e oscuro dell’umanità, che trovo molto più stimolante e interessante.

In conclusione parlaci dei programmi futuri della band, eventuali live di promozione del disco.

Sicuramente vogliamo portare Land dal vivo, implementando il set con altri brani rimasti fuori dall’album. Abbiamo definito la scaletta e siamo pronti finalmente a suonare live, a collaborare anche con altre band del territorio che sta rimaturando una ottima scena, ci sono tantissime band incredibili là fuori, dai Cafè Bizzare, agli Anuseye, i Crampo Eighteen, i Los Drigos e tantissimi altre band, affini alla nostro genere musicale e non solo. Parlavamo di Seattle, sta roba della scena mi è rimasta appiccicata addosso, che ci vuoi fare. Grazie ancora per l’opportunità. E poi cominceremo a pensare al prossimo album.

Nino Colaianni

 

Vultures

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VELENO SOTTILE
“La storia degli Screaming Trees”
(Tsunami Edizioni, 2022)
di Davide Pansolin (Tsunami)

“Veleno Sottile – La Storia degli Screaming Trees” è la prima biografia al mondo della band, direttamente autorizzata dai fratelli Conner, membri e fondatori, assieme a Mark Lanegan, dello storico gruppo statunitense, attivo da fine anni ’80 e per tutto il decennio dal 90 al 2000 e considerato promotore e ispiratore del movimento grunge.
Il libro è uscito da poco meno di un mese, edito da Tsunami e scritto da Davide Pansolin noto fondatore della storica fanzine Vincebus Eruptum da cui poi è derivata anche l’omonima etichetta discografica indipendente che ha recentemente dato alle stampe gli ultimi dischi proprio di Gary Lee Conner chitarrista e compositore degli Screaming Trees.
Pansolin è da sempre appassionato di musica rock ed estimatore della band, tanto da portarlo alla realizzazione di questo volume che si appresta a diventare un pietra miliare per i fan dei quattro ragazzi di Ellensburg.
Scambiamo con lui alcune impressioni derivate dalla lettura del volume.

Cominciamo dal titolo, perché “Veleno Sottile”?
Il motivo è duplice. In primis è la traduzione letteraria di Subtle Poison, brano compreso in Buzz Factory (1989). Come descritto anche nel libro quello a mio avviso è una killer-track e non capisco come mai non divenne un manifesto della scena di Seattle al pari di tante canzoni più famose di altre band. Quella canzone secondo me è grandiosa ed è un magnifico esempio di hard-rock/punk in salsa grunge. Il secondo motivo è più filosofico e legato alla sostanza proibita che purtroppo ha minato direttamente il percorso della band. Senza le dipendenze pesanti di Lanegan dal 1992 in poi, secondo me gli Screaming Trees avrebbero avuto molto più successo: per fare un esempio se Dust fosse uscito nel 1994 invece che nel 1996 forse staremmo parlando di un’altra storia. Non si può andare avanti con i “se” e con i “ma”, ma quel veleno ha condizionato a mio avviso in maniera ingenerosa la band.

Come e quando è maturata l’idea di scrivere il libro?
L’idea di scrivere il libro è nata ad inizio 2019, cioè quando sono entrato in contatto molto stretto con Gary Lee Conner, poco dopo la decisione di pubblicare in vinile per la mia etichetta (Vincebus Eruptum Recordings) il suo album Unicorn Curry. In quel periodo ho avuto parecchi scambi “epistolari” con Gary Lee e la sua estrema disponibilità e l’entusiasmo con cui mi parlava degli Screaming Trees, band di cui sono da sempre fan, mi ha fatto balenare l’idea di iniziare in quest’opera. La decisione è stata immediata e come risposta entusiastica alla mia idea, Gary Lee ha creato un gruppo/chat su Messenger per coinvolgere moltissimi personaggi e darmi fonti dirette per la mia storia.

Parlaci un po’ della sua stesura, come hai raccolto le testimonianze, le notizie, le interviste che riporti. Raccontaci qualche curiosità della ricerca delle informazioni e degli aneddoti scritti.
La stesura è nata da una mia deformazione professionale: mi sono fatto una griglia cronologica che fondamentalmente è quella che si può leggere nell’indice dei capitoli. Dall’indice iniziale a quello pubblicato nel libro, nonostante i 3 anni di gestazione, ci sono veramente poche differenze. A livello strutturale sono partito dall’analizzare Ellensburg, curioso punto geografico da cui si è sviluppata tutta la storia. Le testimonianze le ho raccolte in gran parte direttamente dalla chat di cui ho parlato prima, perlomeno raccogliendo la disponibilità e poi sentendosi direttamente via mail. Nella chat ci sono un sacco di personaggi importanti (Bruce Pavitt, Jonathan Poneman, Susan Silver, Evan Dando, etc) ma logicamente non tutti hanno partecipato. La maggior parte delle informazioni le ho raccolte da Gary Lee Conner, ma mi hanno dato una mano anche John Agnello, Sam Albright, Suzy Conner, Lyle Hysen, etc. Io e Gary Lee avevamo provato ad organizzare anche una bella call in cui Gary Lee e Van avrebbero colloquiato amabilmente con il sottoscritto, ma poi alcuni problemi fisici di Van Conner ce lo hanno permesso. Il libro comunque è stato costruito sulla struttura cronologica, a cui ho aggiunto aneddoti ed interviste puntuali. A livello bibliografico, ho preso alcuni spunti da “Everybody Lover Our Town” di Mark Yarn e, in corso d’opera, dalla biografia di Mark Lanegan.

So che hai un livello di comunicazione privilegiato con Gary Lee Conner, dicci di più sui tuoi rapporti con lui, quanto è stato importante il suo contributo alla realizzazione della biografia.
Il suo contributo è stato fondamentale. Senza la sua disponibilità non sarei neanche mai partito con l’idea di scrivere un libro sui Trees. Il fatto che lui abbia scritto la prefazione di suo pugno è una soddisfazione enorme.

In più occasioni tra le pagine si rivela la tua passione per la band, soprattutto quando eleggi alcuni loro brani a manifesto di quella che sarebbe divenuta la scena grunge. Dicci cosa sono i Trees per te e quali emozioni ti suscitano.
Io ho conosciuto la band a inizio anni ’90, quando ordinai l’EP Other Worlds su CD dal catalogo Sweet Music: costava pochissimo e come immaginerai da studente avevo un ridicolo limite di spesa. Quelle 6 tracce acerbe mi sorpresero subito e da lì in poi andai alla ricerca degli altri dischi. Conobbi quindi la band un po’ tardi, ma da allora non ho mai smesso di seguirli. Da 30 anni la voce di Mark e la chitarra di Gary Lee mi emozionano ancora.

L’impressione che ho avuto leggendo il libro è stata di trovarlo molto scorrevole, a tratti quasi sintetico, soprattutto nel racconto delle vicende personali dei membri della band, quasi a voler rendere l’idea della parabola veloce e bruciante della carriera dei Trees, quasi a voler rimarcare il percorso ansiogeno di quello che poteva invece essere il consolidamento di una definitiva consacrazione musicale. Confermi o è solo una mia sensazione?
Non saprei. Ovviamente sulle vicende personali avrei avuto molto materiale, ma ho anche scritto che per approfondire la sua vita c’è già “Sing Backwards And Weep” (scrivere il libro in contemporanea o quasi con la sua autobiografia chiaramente mi ha limitato). Così anche sugli altri membri ho cercato di limitarmi soprattutto agli aspetti musicali. Per essere sinceri, c’è comunque un abisso di interesse tra la vita spericolata di Lanegan e quella “quasi normale” degli altri … eh eh …

Approfitto degli episodi di bagarre, distruzione e autodistruzione raccontati nel libro, per chiederti come mai secondo te, le rock band e il rock in generale hanno perso quella originaria matrice di ribellione e rivoluzione che lo caratterizzava fino agli ’90.
Penso che il motivo sia soltanto economico. Fino a quegli anni i giovani non avevano un centesimo in tasca e quindi la ribellione nasceva automaticamente. Da lì in poi in generale (solo in generale, ripeto) a livello sociale sembra ci siano meno problemi economici. Vedo in giro band di giovanissimi con strumentazioni che costano di più del furgone sgangherato con cui girano … c’è qualcosa che non torna: qualcuno nel 1997 cantava “Sabato in barca a vela, Lunedì al leonkavallo”.

In rete e sui social, grazie al tuo contributo, sta uscendo allo scoperto, forse inaspettatamente, una fan base cresciuta a pane e Screaming Trees. Te lo aspettavi? Eri conscio di quanto fossero amati?
Sì! E vado fiero di questo fattore. Fin dal primo momento in cui ho iniziato a scrivere il libro mi sono dato come obiettivo primario di rendere onore alla band, rimasta sempre in secondo piano rispetto alla scena musicale di cui hanno fatto parte. Da subito, mi sono reso conto che aveva una base di fan significativa e forse un po’ assopita. La maggior parte della gente che conosco è prima fan degli Screaming Trees e poi di Lanegan … non il viceversa: e io mi ritrovo molto in questa parte di pubblico. Leggendo l’autobiografia di Mark mi sono dato un secondo obiettivo, cioè quello di rendere onore al magnifico talento di Gary Lee Conner: senza di lui i Trees non ci sarebbero stati ed anche Lanegan non avrebbe mai fatto il musicista. Ho trovato davvero ingenerose le pesanti parole contro di lui e infatti, alla fine, pure Mark se ne era reso conto. Ma non dico altro per non spoilerare nulla.

Per ultima la domanda che mai avrei voluto rivolgerti, come hai vissuto la scomparsa di Mark Lanegan?
Malissimo. Dopo cena di solito faccio 10 minuti di cazzeggio sui social girando tra i profili di amici. Entrando sul profilo di Mark Lanegan ho visto la notizia, postata circa 5 minuti prima. Non ci ho capito nulla … pensavo fosse una fake news! Ho scritto il primo o secondo commento in assoluto su quel post, chiedendo se fosse appunto uno scherzo. Subito dopo ho scritto a Gary Lee Conner per chiedere se fosse vero e purtroppo lui me lo ha confermato. Sono sincero … mi sono messo a piangere … Alle 20:58 ho scritto ad un amico fraterno (che tu conosci molto bene) per comunicargli la cosa e cercare conforto reciproco. La cosa mi ha sconvolto anche perché è successa proprio un mese abbondante dopo la consegna del libro: ti lascio immaginare quante volte ho ascoltato la voce di Mark durante i precedenti 30 anni … e in maniera quasi continua e costante durante gli ultimi 2/3 anni.

Nino Colaianni