CUL DE SAC

Cul De SacQualche anno fa lessi di un concerto, poco distante da casa; suonava un gruppo, i Cul De Sac, che avevo forse sentito nominare, o forse lo immaginavo solo. Lessi qualcosa su di loro in giro, poco materiale ma lusinghiero … si va. Esperienza indimenticabile, quasi metafisica, che mi spinse a procurarmi tutto di loro e a passare lunghe ore all’ascolto delle jam più intriganti create negli anni ’90. Reduce dall’ennesimo ascolto della loro produzione lascio qualche sensazione personale … mi auguro spinga chi non li conoscesse alla loro scoperta.

EcimEsordiscono con Ecim, album enorme come poco. A partire dalla sensazionale martellata analogica di Death Kit Train, attraverso i deliri guttutronici di Homunculus, capolavoro di forte ascendenza krauta, la commozione artificiale di Nico’s Dream, la surfmusic in ghingheri di Electar, dal vivo una vera e propria atomica sensoriale, il folk allegro marcato Fahey di Portland Cement Factory nobilitato da scariche elettriche senza controllo, quest’album esalta ad ogni ascolto di più, e rimane uno dei capolavori assoluti degli anni ’90. Lo consiglio come punto di contatto più comodo per l’approccio al gruppo.

I Don’t Want To Go To Bed è una raccolta di pezzi anche precedenti ad Ecim, alcuni vere e proprie improvvisazioni. La classe è sempre immensa, e una breve maratona cerebrale come Abandoned Hospital riesce ad ipnotizzare con facilità, Doldrums ci riconduce sui sentieri cosmici, versante quattroquarti, la scorciatoia più efficace verso l’esaltazione. Graveyard For Robots, dal titolo emblematico, evolve verso un crescendo ritmico e stridente mai fuori fuoco e sempre godibilissimo, mentre This Is The Metal That Do Not Burn sembra un orgasmo che non esplode mai, estenuante lavoro ai fianchi di un cervello sempre più arrendevole e di un timpano ormai dolcemente succube. Qualche parola per due pezzi minori: Count Donut e For Seasickness. Pur non essendo registrati al meglio, posseggono una carica schizoide eccezionale, che esplode specie nella seconda in un’improvvisazione condita da mille suoni e distorsioni da applausi.

China GateL’album successivo è China Gate. Dopo un coretto sospirante al fantomatico cancello comincia Sakhalin, la surf music quando il mare è sostituito da una colata lavica di stridori analogici, le onde da nonsense meravigliosamente collocati in una progressione irresistibile. Pezzo grandioso. Nepenthe indulge su una linea di chitarra irreale, che sferza lievemente l’irreale, fra spiriti aleggianti e visioni disorientanti, il deserto indiano che si tramuta in affascinante scenario post atomico. Silenzio ed ammirazione. The Colomber è l’esaltazione dello spirito del gruppo, cavalcate di sapore chitarristico sporche di valvole e rumore. Il drumming è potente ma non prevarica mai un’armonia di fondo, per cui ogni strumento trova la propria collocazione in un architettura semplicemente perfetta. Grandioso. China Gate si chiude con Utolpia. Il pezzo inizia con un suono profondamente omaggiante lontane atmosfere tropicali, che costituisce un pretesto per un commiato arrembante, in cui i suoni sono dipinti ad acquarello, fino a perdersi sulla tela in un’ampia macchia liquida che scorre magica come lacrime d’ammirazione.

La collaborazione con John Fahey porta alla realizzazione di The Epiphany Of Glen Jones, lavoro non eccezionale, godibile in parte, specie allorchè le briglie si allentano un poco ed i due chitarristi possono creare atmosfere nelle quali intersecare storie d’altri tempi. Episodi migliori The New Red PonyMaggie Campbell Blues, mentre altre belle idee si perdono a volte in estenuanti sperimentazioni.

Crashes To Light restituisce un gruppo dal suono fuori da ogni tempo. La fantastica Etaoin Shrdlu, a metà fra una jam acida degna della San Francisco della summer of love ed un sabba elettronico, A Voice Through A Cloud, capace di immergere suoni da camera in un’orgia di gentilissimi rumori, On The Roof Of The World, eccezionale elogio all’orchestra cosmica che continua a suonare mentre l’astronave affonda in un buco nero, tutto è al posto giusto e scorre con una completezza ed una logica che lascia estasiati.

Con Death Of The Sun la musica diviene eterea, ai confini della musica da camera. Meno spazio alle divagazioni a sei corde, più presenza di archi e tappeti, atmosfera generalmente sospesa in un limbo fra Ade ed Esperia. Alcuni passaggi sono emozionanti e lasciano smarriti, vedasi capo di Bellevue Bridge, corpo di Dust Of Butterflies, coda di Bamboo Rockets, ma è tutto il serpente sonoro che si insinua senza fatica nei sentieri sensoriali. Più colonna sonora che opera autonoma, Death Of The Sun constituisce una sterzata decisa verso l’astratto.

Questi presentati sono gli album in studio a nome Cul De Sac. Esiste una colonna sonora edita a loro nome, Strangler’s Wife, ed un’ulteriore uscita frutto di una collaborazione con Damo Suzuki, Abhayamudra, che però non mi sentirei di ascrivere alla produzione classica del gruppo. Dura scegliere fra Ecim e China Gate. Ai primi ascolti il primo colpisce con più immediatezza, ma alla lunga China Gate presenta forse più varietà, un controllo del suono affascinante e mai forzato, una piacevolezza che sembra non poter stancare mai. Grandissimi entrambi, grandissimi i Cul De Sac.

P.S.

Anche se consiglio fortemente ed anche più di cercare i loro album, hanno anche un myspace, con la chicca di una cover di Fenomenologia / Energia di Battiato.

Luigi D’Acunto