Capolavori musicali senza tempo
GRATEFUL DEAD
“Blues For Allah”
(Grateful Dead Records, 1975)
I Grateful Dead entrarono in uno stato di attività latente nell’autunno del 1974 che durò fino alla primavera dell’anno successivo, quando la band si riunì nuovamente a Mill Valley California, presso gli Ace Studios di Bob Weir per registrare Blues For Allah, il terzo disco ad essere pubblicato dalla loro etichetta Grateful Dead Records. Quando l’album arrivò sugli scaffali nel settembre del 1975, la band non era ancora ufficialmente in tournée, sebbene avesse suonato alcuni concerti a San Francisco. Ovviamente questa insolita pausa e tutto il tempo libero a loro disposizione, aveva portato beneficio ai Dead poiché Blues For Allah, più di qualsiasi altro loro lavoro in studio passato o futuro, li cattura nella loro forma più naturale e ispirata: concentrati a lavorare sulla creazione di stili piuttosto che essere semplicemente eclettici o sintetizzarne altri già esistenti.
L’apertura con la combinazione di Help On The Way, Slipknot! e Franklin’s Tower, che nelle performance dal vivo sarebbe diventata uno dei loro migliori veicoli esplorativi, è la salutare fotografia di una suite sfaccettata in debito tanto con il Miles Davis di E.S.P. quanto con qualsiasi idea musicale i Grateful Dead avessero già proposto in passato. Pezzi come Slipknot! e Franklin’s Tower contengono infatti cambi di accordi, progressioni e indicazioni di tempo che diventano intricati e allettanti enigmi musicali da risolvere per Jerry Garcia e soci.
Un altro pezzo altamente evoluto come King Solomon’s Marbles mette in luce, tra le altre cose, un lavoro sfrenato alla tastiera Fender Rhodes che mostra più di una semplice sfumatura di ispirazione nei confronti di un illustre jazzista come Herbie Hancock. Queste tracce più dirette contrastano con il delicato haiku musicale e lirico di Crazy Fingers contenente alcune delle immagini elegiache più toccanti del paroliere Robert Hunter. L’assolo di chitarra di Bob Weir nello strumentale Sage & Spirit, dove la leggera melodia acustica si tinge di un arrangiamento altrettanto affascinante, rimane l’ennesimo momento da incorniciare e rappresenta uno dei suoi apici più ispirati.
Una citazione tutta speciale merita la conclusiva title track, dove i tempi si fanno più dilatati con lo scopo di ricreare l’atmosfera on stage di un loro concerto. Un pezzo arricchito da un canto ipnotico e rituale nel quale il contrasto fra tensione elettrica e rilassatezza acustica si sposa alla perfezione riallacciandosi al tradizionale mood psichedelico del gruppo. Blues For Allah codifica il suono della maturità dei Grateful Dead in un lucidissimo insieme di canzoni dai toni delicati, con qualche inserto elettrico che tuttavia non turba il suo pacifico incedere. Un episodio che abbandona ogni velleità sperimentale, riallacciandosi alla tradizione musicale statunitense già proposta in capolavori pregevoli come Workingman’s Dead e American Beauty.
In questi solchi la proposta musicale dei Dead appare sostanzialmente lineare, di grande mestiere e caratterizzata dal cantato trasognato e dalla sempre brillante chitarra di Jerry Garcia, ottimamente sorretta dal resto del gruppo. Una sorta di musica meditativa e rilassante, sempre basata su melodie con un andamento svolazzante che frena il suo impatto commerciale ma che sembra scorrere nelle vene di chi riesce ad apprezzarla, immergendosi anima e corpo, come un magico liquido rigenerante.
Blues For Allah, con la sua copertina che mostra un’illustrazione di Phillip Garris (The Fiddler) con l’iconica immagine di uno scheletro con i capelli bianchi scarmigliati che suona il violino seduto alla finestra di un tempio antico, rimane, nonostante alcune critiche negative al momento della sua pubblicazione, una delle opere più ispirate e più intense dei Grateful Dead di quel particolare frangente. Un piccolo classico da riscoprire senza alcun indugio.
Marco Galvagni