“Il Rocket Man della Deep Riviera”
Intervista a Caterino “Washboard” Riccardi (Andrea Scarso), promoter dei Session Americana

Andrea Scarso, classe 1970, risiede a Piove di Sacco, un paese incastrato nella campagna in provincia di Padova, poco distante dalla rinomata Riviera del fiume Brenta, terra di ville storiche utilizzate dalle antiche signorie veneziane per le gite in campagna. Andrea, in arte Caterino Riccardi, è prima di tutto un musicista che collabora, da oltre 10 anni, con due band, The Fireplaces e John Beer: folk-blues da una parte, soul, funk e psichedelia dall’altra. Lo pseudonimo con cui è conosciuto tra i suoi molti ammiratori nelle terre della “deep riviera” è un omaggio in stile maccheronico al mitico chitarrista Keith Richard dei Rolling Stones. Folgorato in giovane età dalla musica live di U2, Dylan, Tom Petty, Eurythmics, complici zio e cugino, inizia ad ascoltare le prime registrazioni live di Rory Gallagher e James Brown e dal quel momento inizia un lungo viaggio musicale tra dischi in vinile, CD e concerti che lo porterà a suonare la chitarra e scrivere canzoni con diverse band della zona e infine a incontrare magicamente The Fireplaces dove esplode la sua vena creativa che viene convogliata in due album di ottima fattura: Shelter From The Storm del 2014 e Soulfood del 2018.

“Io credo molto nelle instant song, ovvero in quelle canzoni che in mezza giornata hanno già il 90% della struttura, testo e arrangiamento. Ho la fortuna di pensarle già complete, almeno dal punto di vista melodico, poi vengono rifinite con Riccardo Pinato, Carlo Marchiori, Oliviero Lucato e Tiziano Bosco, gli altri componenti della band” ci dice, in una chiaccherata che è alla base del presente articolo.

Nei giorni di festa è un DJ che mette sui piatti il meglio di Stax e Motown, un personaggio eclettico che si è lanciato anche nell’organizzazione di eventi musicali, un terreno molto difficile e minato da diverse problematiche, da cui è riuscito a uscirne con successo, portando negli ultimi anni in concerto anche un gruppo piuttosto importante come Session Americana, di cui abbiamo scritto la recensione su Frastuoni, a marzo di quest’anno. L’abbiamo intervistato.

Come nasce e si sviluppa la tua attività di organizzatore/promoter di concerti? Come è nato l’incontro con la band Session Americana?

È partito tutto con il mio amico Alessandro che aveva una bellissima casa e una sala enorme con un’acustica strabiliante che poteva ospitare almeno 60 persone. Il primo concerto fu quello di Ben Glover degli Orphan Brigade, una band americana che vi invito a scoprire. Portammo Mark Geary, songwriter irlandese, e le Kalahysteri, un trio di musiciste donne che fanno un genere incredibile fondendo blues, folk, power pop fino ai traditional bluesgrass dei monti Appalachi. Dopo un certo periodo abbiamo alzato il tiro con il concerto di Larry Campbell a Villa Roberti a Brugine (PD) e di Jake Clemons sempre a Villa Roberti, con quasi 400 partecipanti. Rimasto solo, dopo alcune difficoltà, riuscii a portare in concerto James Maddock e trovai una nuova location stabile, Il Casone Azzurro di Vallonga a Codevigo, il comune più orientale della provincia di Padova e l’unico ad avere uno sbocco sulla laguna veneta nel tratto denominato Valle di Millecampi. Da allora mi sono sempre appoggiato a loro, sono una specie di seconda famiglia per me. La Session Americana l’ho incontrata grazie ad Andrea Parodi, che è un grande musicista oltre ad essere il direttore artistico del festival dedicato a Townes Van Zandt a Figino Serenza (CO) e una firma storica della rivista musicale Il Buscadero. La prima volta con Session Americana siamo stati in un locale a Concordia Sagittaria (VE). Poi decisi che il teatro era il loro habitat naturale e quindi abbiamo fatto due concerti al Teatro Filarmonico di Piove di Sacco (PD) e l’ultima esibizione nel piccolo teatro di Bojon.

Quali sono i tuoi progetti nel breve termine?

Continuo a creare eventi: dal 15 al 28 maggio sarò il road manager di Mark Geary per un mini tour nel nord Italia, mentre il 7 maggio, al Casone Azzurro, il chitarrista blues Alberto Visentin presenta dal vivo il suo ultimo album Back Again. Il 20 maggio un trio incredibile ovvero: Mark Geary, James Maddock e Brian Mitchell (feat. Alex Valle). A luglio sto cercando di portare un organista Hammond che ha suonato con Sharon Jones e Charles Bradley. Ho canzoni per un doppio di The Fireplaces e vorrei far uscire l’album dei John Beer, poi continuo a suonare dal vivo perché è davvero la mia vita, non posso farne a meno.

Cosa ci racconti della faccenda di Bruce Springsteen, come è andata?

Bruce Sprinsteen era in concerto allo stadio Euganeo di Padova il 31 maggio 2013. Compro il biglietto, e mi metto d’accordo con Kimberly, anche lei nata nel New Jersey, di andarlo a vedere assieme. Era un periodo in cui avevo sogni molto vividi dove io suonavo la mia washboard con artisti internazionali, sapevo che Bruce chiamava le persone del pubblico a ballare o a cantare con lui. Avevo cominciato a fantasticare e a pensare, sempre con più insistenza, alla possibilità di salire sul palco con The Boss. Avevo un amore smodato per We Shall Overcome: The Seeger Sessions album del 2006 di Springsteen. Con The Fireplaces cantavo Oh, Mary, Don’t You Weep e Pay Me My Money Down accompagnandomi con la mia washboard trovata casualmente in un monte dei pegni a New Orleans, anni prima. Cosí mi lascio convincere da questa idea folle e inizio a mettere in atto un piano diabolico partendo da un cartello dove avevo scritto a chiare lettere: “I HAVE WASHBOARD WITH ME, CAN I PLAY “MARY DON’T YOU WEEP’ WITH YOU?”. Alle 4 di mattina eravamo già in fila e riusciamo ad entrare nel pit. Quel venerdì pioveva leggermente per cui mi venne più facile occultare lo strumento, ero vestito a cipolla: felpa-washboard-felpa e poncho per la pioggia. Dopo un’attesa snervante riusciamo a infilarci e a guadagnare posizioni arrivando tra le prime file sotto il palco a pochi metri da Springsteen. Kimberly mostra il suo cartello con la scritta “”BORN TO RUN” CHANGED MY LIFE”: nel prendere il cartello il Boss commenta: “Mine Too!”. Gli mostro il mio e la washboard, ma non succede niente. Dopo che la band aveva finito di suonare Born To Run, prima che iniziassero i bis, Bruce da’ un colpetto di gomito a Little Steven dicendogli: “Lì c’è uno che ha uno strumento particolare e vuole suonare con me, che facciamo?”. L’amico e collaboratore di una vita gli risponde: “Beh sei tu il Boss, il rischio è tuo”. Allora Bruce si stacca dalla linea di circa 20 musicisti, mimando il movimento della washboard, viene verso il pubblico. Inizio a urlare con tutto il fiato che ho in gola: “Vuole me! Vuole me!” e mi faccio largo, lui si piega e mi chiede di tirare fuori lo strumento. 50.000 persone cantavano, urlavano, lo stadio era una bolgia infernale, mi fanno salire sul palco, Bruce piega l’asta del microfono come se fosse un normale rapporto tra musicisti e poi prende il suo wireless e mi intervista. Gli chiedo Oh, Mary, Don’t You Weep, lui mi dice: “Abbiamo Pay Me My Money Down“. Allora prego tutti i Santi di controllarmi le mani, calmarmi il battito del cuore e soprattutto di non sporcarmi i pantaloni (sarebbe stata una pessima figura!). Lui inizia con la chitarra acustica, io cerco di seguirlo un po’ impacciato, con il cuore in gola, poi parte quel treno a vapore di Max Weinberg e raddrizza tutto! La canzone va così bene che alla fine, fa fare l’assolo pure a me: un bagno di folla, 50.000 persone in delirio, per un finale di concerto indimenticabile. Tra foto, saluti e abbracci riesco ad andare all’auto dopo due ore, il giorno seguente ero in prima pagina nei quotidiani più letti del Veneto. L’esperienza con Springsteen è stata davvero una sorta di linea di demarcazione, avere la benedizione sul palco niente meno che dal Boss è stato meglio che vincere alla lotteria. Un anno e mezzo dopo, a gennaio del 2015, con i The Fireplaces, siamo stati invitati da Springsteen per partecipare come prima band italiana al “The Light Of Day” un concerto per una raccolta di fondi per la ricerca sul Parkinson, allo storico Stone Pony di Asbury Park nel New Jersey. Questa esperienza ancora oggi lavora nel mio profondo ed è la fonte di una energia creativa che mi stimola a fare quello che più amo fare, scrivere canzoni, suonare dal vivo e vedere la gente felice. Non so se voi credete alla magia o a qualcosa che sta sopra di noi e dirige il tutto, ma quella sera allo stadio, io ho avuto il vago sospetto che ci sia stato lo zampino di una entità superiore, ed è per questo motivo che ho modificato in seguito il mio nome d’arte in Caterino “Washboard” Riccardi. Perché in qualche modo bisogna pur rendere omaggio agli dei del rock e io cerco sempre di fare del mio meglio!

Andrea Masiero

 

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