JE SUIS SUICIDE
Alla memoria di Alan Vega (1938-2016)
La notte del 16 luglio scorso se n’è andato all’età di 78 anni Alan Vega, l’ultima icona di un rock’n’roll che sapeva guardare al futuro. Nato Boruch Alan Bermowitz il 23 giugno 1938 a New York da famiglia portoricana, Alan Vega verrà ricordato, prima di ogni altra cosa, per esser stato, con Martin Rev, la metà dei Suicide, una delle formazioni più innovative e influenti di tutta la storia della pop music.
Come accade a coloro che precorrono i tempi, i Suicide furono inizialmente incompresi, denigrati e osteggiati da critica e pubblico. Immaginate voi stessi che reazioni poteva innescare la loro selvaggia formula di elettronica minimal-brutista nei primi anni ’70, tempi nei quali imperavano progressive, hard e glam rock. Ed è evidentemente per questa ragione che il loro omonimo debut album vedrà la luce solo anni dopo, nel 1977, grazie al clima culturale più favorevole determinato dal ricambio generazionale punk. Ma, alla barba dei primi detrattori, quell’esordio è una pietra angolare e la lettura a posteriori chiarirà in via definitiva le ragioni oggettive del suo valore. Prima dei Suicide nessuno aveva osato tanto quanto loro e, forse, solo i Velvet Underground possono costituire un precedente a loro riferibile, per iconoclastia sonora e profondo, disperato, urgente lirismo urbano. Una dietro l’altra: Ghost Rider, Roket USA, Cheree, Johnny, Girl, Frankie Teardrop (la più sublime e agghiacciante della tracklist), Ch“, sono sette marchi a fuoco che, da allora, rimarranno impressi per sempre sulla pelle del pop contemporaneo. La genialità di Alan e Martin risiede fondamentalmente nella combinazione tra straordinaria unicità della visione musicale ed essenzialità-povertà estrema dei mezzi impiegati. Tutti i brani di Suicide sono realizzati unicamente con l’organo Farfisa di Rev, sfruttato tanto per riprodurre due-ritmi-due dal modesto banco preset, quanto brevissimi fraseggi di poche note iterati fino all’ipnosi, con l’aggiunta decisiva dei tormentati vocalizzi di Vega, puntualmente squassati da abbondanti mandate d’eco a nastro. L’impressione è quella di assistere ad un rito voodoo che invoca divinità in cuoio nero e brillantina, danzando in trance sotto il ponte di Brooklyn. Sì, perchè è chiaro fin da subito: per quanto allucinato e ridotto strutturalmente ai minimi termini, quel suono lo conosciamo bene e lo spirito che possiedono i Suicide è evidentemente il demone del rock’n’roll riemerso dai ’50. O forse, la trasfigurazione in atto è tale da aver innescato un processo che si sa da dove parte ma non si sa dove terminerà. Ad ogni modo, il caso vuole che l’anno precedente alla pubblicazione del disco fosse morto Chuck Berry, e il medesimo anno Elvis Presley.
È dunque nella NYC di Ramones, Dead Boys, Richard Hell, Television, Blondie, Talking Heads e molti altri, del CBGB’s e del Max’s Kansas City che i Suicide trovano lo spazio per potersi affermare, ma la loro musica ha radici più profonde e, al contempo, sa proiettarsi ancora più in avanti rispetto a punk e new wave coeva. Il loro è l’ordigno estetico capace della deflagrazione più potente di tutte. Di fatto, il primo album siglato dal sodalizio artistico tra Rev e Vega segna un punto di non ritorno. Ponendosi sullo stesso piano di un’opera di tale perfezione, nessuno potrà mai sperare di eguagliarla, e meno che mai superarla. Suicide è l’album di r’n’r definitivo e terminale: non si può dire di più e non si può fare con meno, non si può avanzare e non si può indietreggiare, insomma, non c’è più margine di manovra. Con questo gesto radicale Rev e Vega condannano tutto il rock futuro, e la loro stessa carriera, alla ridondanza formale, alla marginalità e all’inessenzialità finalistica. Un vero e proprio atto suicida effettivamente, ma guai se non fosse stato compiuto. Per dirla in altri termini, quelle sette canzoni rappresentano per il r’n’r, quello che “Mattino” di Ungaretti rappresenta per la poesia, o le tele tagliate di Fontana per la pittura. Un precedente così lascia solo due possibilità: o accettare che il “verbo” si è esaurito, o legittimare ogni forma di posterità. Il mondo (leggi il mercato), ovviamente, sceglie sempre la seconda soluzione, lo sappiamo. Il debut con la copertina bianca imbrattata di sangue del duo newyorkese, nel tempo, è diventato un oggetto di culto, ha destato ammirazione, è stato preso a modello ed ha creato proselitismo in più di una generazione di appassionati e musicisti, alcuni dei quali anche insospettabili. Ad esempio, chi avrebbe mai scommesso che Bruce Springsteen potesse chiudere le esibizioni del suo tour 2005 suonando Dream Baby Dream, singolo dei Suicide del 1978? Va ricordato inoltre che il minimalismo di Rev e Vega non si limita al puro dato sonoro ma, con la riduzione della line up a duo (elettronica e voce), fornisce un modello economico e dinamico che in alcuni generi (synth pop e post industrial in primis, ma se volete anche hip hop) troverà ampia applicazione. Oggi che lo sviluppo tecnologico ha prodotto tanti one-man-project potrebbe sembrare un dato scontato, ma all’epoca, e per molti anni a seguire, non lo è stato affatto.
Non è casuale che abbia deciso di soffermarmi a lungo sulla prima prova discografica di Alan Vega, dato che, come già detto, quell’episodio stabilisce una vetta artistica insuperabile e insuperata, anche per Vega stesso. Nel corso della sua vita l’artista newyorkese ha comunque prodotto complessivamente molto: all’attività intermittente come Suicide ha affiancato quella solista, svariate collaborazioni-partecipazioni ed anche una carriera come artista visivo, piuttosto celebri e quotate le sue sculture luminose al neon. Ma tornando alla discografia dei Suicide … Pur rimanendo una spanna al di sotto della ruvida perfezione del suo predecessore, il secondo album dei due, Suicide: Alan Vega, Martin Rev (1980), si attesta a livelli qualitativi decisamente alti, anche se, per ammissione degli stessi autori, la scelta di dotarsi di sintetizzatori, sequencer, drum machine, utilizzando massivamente la tecnica della sovraincisione in uno studio di registrazione professionale, non fu una scelta opportuna. Ad indurli in tentazione, quella e altre volte, fu il produttore Ric Ocasek, già leader dei The Cars. Presumibilmente in buona fede, Ocasek provò a render il suono Suicide commercialmente più appetibile, ma, con il senno di poi, avremmo preferito fosse rimasto a pettinare la new wave anodina della sua band, lasciando Martin ed Alan in compagnia degli amici no wave del Village. La formula geniale dell’esordio si converte in gabbia di maniera, pur conservando in alcuni episodi il suo peculiare fascino, nella terza prova di studio A Way Of Life (1988), mentre è addirittura meglio mandare al dimenticatoio il successivo Why Be Blue (1992), un titolo che, vista la piattezza creativa mostrata, suona come domanda retorica. L’ultimo cimento in duo con il vecchio compare di tante avventure, American Supreme (2002), prova ad uscire dalla routine ma, nonostante le buone intenzioni, non convince a pieno. L’età d’oro appare ormai lontana, ed ai fan non resta che consolarsi con il ponderoso box di 6 CD Live 1977-1978 edito dalla Blast First Petite nel 2008.
È altalenante, in quanto ad esiti artistici, anche la carriera solista. Alan parte con la marcia giusta pubblicando l’album omonimo del 1980 e il successivo Collision Drive (1981). Due esempi di rockabilly “a modo suo”, magneticamente iterativi quanto le prove con Rev, le quali, nel passaggio dal set up elettronico a quello elettrico-acustico, decisamente più convenzionale per il genere, perdono in effetto straniante per guadagnare in “classicità”. Per chi ancora non l’avesse capito, quelle sono le passioni di Vega, animale da palco istintivo, viscerale, cantante sanguigno tutto singhiozzi e sincopi, niente affatto un riflessivo avanguardista od un compassato intellettuale. Un artista comunque dotato di lampi creativi talvolta davvero formidabili, quando non addirittura epocali. Nella dicotomia di massima tra chi, nella piscina dell’arte, si tuffa di testa e chi di pancia, lui appartiene senza ombra di dubbio alla seconda categoria, con tutti i vantaggi ed anche gli svantaggi del caso. Piaccia o no, questo è stato Alan Vega. Continuando a scorrere la sua discografia … Per Saturn Strip (1983) vale il discorso fatto sopra per la seconda prova con Martin Rev e, guarda caso, al banco di regia siede ancora una volta il fan-produttore Ric Ocasek. Segue un lungo periodo punteggiato da prove che vanno dal deludente al direttamente imbarazzante, ai “pancisti” può capitare anche questo, ma meglio sorvolare. Al contrario, sono da sottolineare l’ottima prova in compagnia di Alex Chilton e Ben Vaughn titolata Cubist Blues” (1996), la collaborazione con Etant Donnes, Re Up (1999), alla quale partecipano anche Genesis P. Orridge e Lydia Lunch, e addirittura da incorniciare la doppietta con Mika Vainio e Ilpo Vaisanen (cioè Pan Sonic): Endless (1998) su Blast First e Resurrection River (2005) su Mego. Il rapporto tra Vega e Pan Sonic si configura come simbiosi mutualistica, il primo legittima con la propria autorità storica i secondi, e i brillanti allievi ricambiano trasfondendo nuova linfa vitale all’attempato maestro. Sopratutto in Endless l’alleanza transgenerazionale è perfettamente sintonica e produce risultati di assoluta eccellenza. Ma a quanto pare anche i grandi vecchi possono imparare qualcosa dagli allievi, ed ecco così che, a sorpresa, quando ormai nessuno se lo aspettava più, esce Station (2007), un album di elettroniche d’assalto energico, ispirato e assolutamente al passo con i tempi. Probabilmente la migliore pubblicazione solista di tutta la carriera dell’ormai anziano prime mover, di sicuro non superata dalla successiva, ed ultima prova, Sniper (2010), firmata con Marc Hurtado, uno dei due Etant Donnes.
Dopo luci ed ombre, alti e bassi, salti e cadute, adesso il sipario è calato per sempre e niente si può più aggiungere o togliere a carico di Alan Vega. Il cordoglio ognuno lo vive nella misura e nel modo che sente proprio, dato che esso, come sempre in questi casi, dipende dall’appartenenza generazionale e dalle dinamiche personali che relazionano ognuno di noi all’opera dell’autore scomparso. Ciò che, al contrario, non può essere scalfita dal giudizio soggettivo, è l’importanza oggettiva del consistente lascito artistico di Alan Vega. Negare questa evidenza storica corrisponde ad affermare di non aver compreso la musica pop nella sua totalità, ignorando i meccanismi attraverso i quali essa può assumere senso, valore e peso culturale.
Gianluca Becuzzi