TRANSNADEŽNOST’
 
“Monomyth” 
(No Name, 2018)

Mentre la musica rock italiana affonda nel dibattito su quale moda seguire pur di non tornare alla classicità, in altri paesi le cose vanno diversamente. La Russia, con i pietrogradesi Transnadežnost’, ha dato l’avvio ad un recupero di suoni, dinamiche, etica ed estetica neoclassiche, con potenziali dialoghi con ogni tipo di stile. Etichettati nei modi più disparati (dall’impreciso rock spaziale all’assurdo rock desertico) il gruppo ha radici nella cultura russa, richiamandosi alla corrente cosmista che abbracciò, fra fine 1800 e metà 1900 filosofia, scienza e letteratura fantascientifica. Non è un orpello per distinguersi dalla massa (cosa in sé valida): il cosmismo si spinse verso suggestive ipotesi di sviluppo, che marciavano sul fronte materiale e morale crescendo fra gli sviluppi della storia dal populismo allo stalinismo, approfondendo varie tematiche fra cui l’esplorazione spaziale e l’immortalità fisica e mentale dell’uomo e degli individui. E quale miglior biglietto da visita per un gruppo che stabilire un legame fra fenomeni apparentemente distanti come rock e cosmismo? Gruppo cugino dei più famosi Ciolkowska, nel 2018 hanno rilasciato questo bel Monomyth, quasi interamente strumentale. Un disco coraggioso, che rompe quasi del tutto il dialogo con ciò che è avvenuto dopo il 1994 (vero termine dei lunghi anni 1980), anno in cui escono gli ultimi dischi dei loro modelli di musica progressiva sincretica, Ozric Tentacles e Kingston Wall. Chi vorrà sentire a tutti i costi la psichedelia come elemento dominante, è perché verrà fuorviato dalla vulgata del fai da te. La produzione, discreta per i mezzi impiegati, è curata in tutto da Aleksandr Dokshin, veterano del sottosuolo sovietico poi russo. Il gruppo è composto da Aleksandr Yershov e Alesya Izlesa alle chitarre, Nikolay Vladimirovich al basso, David Aaronson alla batteria e la tromba su 2 brani è di Aleksey Gorshkov. Il viaggio comincia con Pachamama, un brano dall’inizio jazz degno dei Gong (terzo nume tutelare) riletti con metodologia Ozric. Kailash è un dialogo serrato, assalto alla modernità con un interludio etnojazz (di stampo centroasiatico, retroterra logico per i Russi);
l’atmosfera rilassata di Star Child è seguita da Huldra, unico brano cantato che sbanda verso Pink Floyd e il rock scuro, un buon tentativo. Capolavoro del disco è la stupenda Ladoga: un brano dominato dal basso, dall’incipit atmosferico e paesaggistico, che fa planare dolcemente l’ascoltatore per poi lanciarlo in una cavalcata quasi hard. Day/Night è una lunga meditazione finale, una jam che fa da ripasso per nuovi orizzonti, più metafisici.

Gran bel disco Monomyth, stellare inizio di un nuovo sviluppo di cose buone e giuste.

Luca Volpe