PIETRE NASCOSTE DAL SOTTOSUOLO:
LIMBUS 4
"Mandalas"
(Ohr Records, 1970)

I Limbus 4 sono una delle perle nascoste di quella straordinaria ondata che fu il krautrock tedesco a cavallo degli anni ’60 e ’70; coloro che vennero definiti “I corrieri cosmici” per il fatto che, sviluppando l’idea dei Pink Floyd in brani come Astronomy Domine ed Interstellar Overdrive, contenuto nel loro primo album epocale The Piper And The Gates Of Down, concepirono una musica dove la psichedelia si dilatava verso atmosfere cosmiche e spaziali, dei trip cosmico-siderali da mandare in visibilio l’ascoltatore.

Le suggestioni cosmiche nei Limbus 4 si mescolano alle atmosfere orientali e indianeggianti, in linea con un manipolo di gruppi krautrock, che ispirati dal romanzo “Siddharta” di Herman Hesse e dal culto per l’India delle comuni hippie indirizzavano la loro ricerca musicale verso l’oriente. Ma a differenza delle coeve band angloamericane l’afflato orientale viene filtrato attraverso la cultura teutonica e le influenze di colui che è stato il massimo ispiratore di tutta la scena krautrock: Karlheinz Stockhausen.

I Limbus 4 esordiscono come Limbus 3, ovvero formazione a tre elementi – Bernd Henninger, Gerd Kraus e un misterioso membro che si fa chiamare Odysseum Artnem – con un album che mescola kosmische musik con influenze indiane e africane, un lavoro alieno di etnopsichedelia uscito in un anno, il 1969, quando ancora il concetto di world music non era nemmeno un’ipotesi.

L’anno successivo si aggiunge un quarto elemento, il percussionista Matthias Knieper, e i Limbus 3 diventano Limbus 4. Quindi pubblicano il secondo disco Mandalas, secondo e ultimo album dato che la formazione poi si scioglie.

Mandalas è un capolavoro nascosto del krautrock. Per realizzare questo disco vengono utilizzati strumenti indiani come sitar e tablas ma anche la viola, mentre l’elettronica crea una spirale cosmica da rendere il suono più metafisico e avulso da una dimensione reale tangibile. Il misticismo è una prassi, inteso più che come semplice fuga dal reale come viaggio esperenziale ultradimensionale in un’epoca dominata dal positivismo scientifico.

In fin dei conti i Limbus 4 (come anche i Popol Vuh) colgono una pera matura. È a partire dal romanticismo ottocentesco che la Germania ha scoperto ed è rimasta infatuata dalle culture orientali, di tutte le culture orientali che vanno dal Medio Oriente fino all’India, alla Cina e all’Indocina, un bagaglio culturale e intellettuale che abbracciava anche culture di un lontano passato come l’antico Egitto e l’antica Persia. Purtroppo bruscamente interrotta della nefasta parentesi del nazismo e poi sbocciata di nuovo nel dopo guerra, ad opera di un manipolo di letterati e compositori del secondo ‘900, per poi essere recepita dalla controcultura underground tedesca di fine ’60.

I Limbus 4 si avvicinano ai Popol Vuh e agli Embryo per quanto riguarda la proposta musicale: kosmische musik orientata alla musica etnica, indiana e anche africana. Ma non sono una carta carbone dei modelli più conosciuti: possiedono una loro spiccata personalità e questo lavoro lo dimostra in pieno.

Mandalas è un lavoro compatto in tutte le sue parti; possiede una sua omogeneità, ottenuta grazie a un sapiente lavoro di amalgama delle due componenti, quella mistico-orientale e quella cosmico-teutonica di stampo stockhauseniano. È un album che manda l’ascoltatore fuori dal tempo, in una dimensione altra, proprio perché possiede la forza di un trip lisergico etnocosmico compatto dall’inizio alla fine.

L’analisi per ogni singolo brano.

Dhyana – Su un mantra di organo si innesta il carme di una bagpipe indiano capace di levitare nel vuoto, accompagnato da un tappeto di dissonanze di viola e scheletriche improvvisazioni di chitarra acustica. È una soglia che mette in contatto con un ultramondo mistico, come un’esercizio spirituale di meditazione buddista. Quando subentra il cantato pare proprio sentire i vocalizzi di monaci nepalesi in trance mente cercano di instaurare un contatto con l’aldilà. Con pacata rilassatezza le parti vocali prendono il sopravvento e quest’universo di voci è intruso di sacralità ultraterrena. Quando si placano le voci si cede il passo a un assolo di flauto, il cui suono pare perdersi nell’eco di vastità himalayane all’ombra dell’Annapurna, quindi subentra un mantra percussivo a creare un battito pulsante fra la terra e il cielo.

Kundalini – È un’esperienza esoterica di contemplazione dei misteri divini che si realizza tramite un equilibrio celeste fra la mistica orientale e la contemporanea europea nelle scuole di Stockhausen e del minimalismo contemporaneo alla Steve Reich. Le note di viola e di flauto sono quasi sussurrate, sembrano provenire da un’eco lontana, oltre la soglia del tangibile: il perfetto connubio fra oriente e occidente, dove il minimalismo è un sottile cangiantismo che si confonde con la meditazione buddista fra le vastità solitarie delle vette himalayane. Solo successivamente flauto e viola si esibiscono in ludici schizzi volitivi che saltabeccano qua è la come giocondi folletti.

Heikuv – Un breve schizzo di abbandonata follia. Una pioggerella sottile di pizzicati di viola e di caracollanti note di piano in caduta libera, poi anche i vagiti di un synth a rendere ancora più pazzerello il tutto. Free-form in azione per questo ludico esperimento che rasenta la figura dello scherzo musicale, di una fantasia-improvviso humoresque a piccoli colpi di pizzicato e gocce di piano. Non vi sono rimando all’oriente ma vi è l’aspetto di un intermezzo di contemporanea europea che è quasi una pièce teatrale nella sua gioconda esecuzione.

Plasma – Quasi venti minuti di connubio fra contemporanea novecentesca e spiritualità indiana. L’apoteosi dell’esercizio spirituale per il raggiungimento del Nirvana. Questa suite si può suddividere in due parti. La prima parte è una danza estatica sorretta da una coinvolgente e invasata trance percussiva di tablas, con un mistico assolo di bagpipe indiana. Ed è una specie di ouverture che introduce la seconda parte ben più corposa: qui a fare la parte del leone è la viola che parte con un’improvvisazione a base di una cascata di note in piena libertà per poi lasciare il posto a un ritorno alle tablas che stavolta si lanciano in un giro percussivo slegato e calato in estasi contemplativa totale. Quindi il viaggio si sposta dall’oriente misterioso al cuore della mitteleuropa: la composizione si abbandona a una lunga e dilatata improvvisazione di viola a base di dissonanti ghirigori in ripetizione minimalista, con un organo sullo sfondo a creare un substrato solenne a questa estesa divagazione. Poi i toni si placano e si raggiunge una stasi meditativa in cui la viola dà leggere e riflessive pennellate, che si perdono su titillazioni di piatti a effetto gong. Quindi è il flauto a prendere il filo del discorso, liberando nell’aria una melodia di stampo tibetano che sembra provenire da un monastero buddista in completa solitudine. Questa composizione che chiude il disco ha in forte valore iconologico, il riassunto di tutto l’album: è la dimostrazione che un incontro fra la ricerca contemporanea europea, soprattutto quella improntata al minimalismo e alla scuola di Stockhausen, e le atmosfere mistiche delle culture orientali è tutt’altro che un connubio impossibile. È uno sposalizio sublime capace di rivoluzionare le regole dell’armonia e del contrappunto, di superare muri e barriere e di costruire un ponte fra oriente e occidente. Al punto tale che le due culture musicali non sono più inscindibili e diventano un nuovo organum compatto e di senso pienamente compiuto.

Marco Fanciulli

 

Mandalas