CAPOLAVORI MUSICALI SENZA TEMPO:
THE ROLLING STONES
"December's Children (And Everybody's)"
(London Records, 1965)
“Mai gli Stones avrebbero avuto la sfrontatezza di pubblicare un simile orrore in Gran Bretagna”. Con questo ironico commento, Keith Richards accoglie l’uscita di December’s Children negli ultimi mesi del 1965. Eppure il laconico commento del chitarrista appare esagerato ancora oggi. Pubblicato solo per il mercato statunitense sulla scia dell’enorme successo di Out Of Our Heads, ad un primo sguardo può apparire come una raccolta slegata e contraddittoria fatta di brani che possono sembrare un insieme di inediti del disco citato in precedenza.
Fortunatamente la realtà è assai diversa. Sin dalla meravigliosa foto di copertina, che utilizza la stessa immagine dell’edizione inglese di Out Of Our Heads e che ritrae i Rolling Stones nei bassifondi di qualche strada malfamata, il disco emana aromi fatti di un chiaroscuro che non celano le personalità e le intenzioni musicali e culturali del gruppo. Gli Stones, nelle copertine dei loro primi dischi hanno sempre dato molto importanza all’iconografia, affidandosi sempre a colori cupi ed oscuri. È anche per questo aspetto che December’s Children risulta essere un’opera compiuta, affascinante ed estremamente attraente. Gli Stones lo sanno bene che il rock’n’roll è nato ed appartiene alla strada. Il suo spirito vive là e pulsa sin dall’iniziale She Said Yeah, una bomba incendiaria proto punk che è in grado di catturare il totale pandemonio di un loro concerto dell’epoca, grazie al contributo di un Keith Richards assolutamente scatenato. La seguono a razzo la famosissima Get Off Of My Cloud, un’estensione graziosamente volgare del disorientamento giovanile già manifestato in Satisfaction e le versioni live di I’m Moving On, un normalissimo esercizio di chitarra slide con un pizzico d’armonica e la deflagrazione di Route 66 nella quale il gruppo schiaccia sull’acceleratore facendo esplodere Richards in un sorprendente assolo.
Il lato più sessista della band esce allo scoperto grazie a Mick Jagger con la cover di Talkin’ About You di Chuck Berry a cui gli Stones cambiano struttura ritmica, accentuandone il testo, rendendola sensuale ed esplicita. Il lato più accessibile del gruppo, invece, esce allo scoperto nella supplichevole semplicità della You Better Move On di Arthur Alexander, nella commovente, dolce, famosa As Tears Go By, scritta in origine per Marianne Faithfull e nelle beat ballads quasi beatlesiane The Singer Not The Song, Gotta Get Away e Blue Turns To Grey. Naturalmente non mancano le radici blues palesate nella deliziosa Look What You Done e l’urlo sociale della classica I’m Free.
December’s Children è questo e molto altro. Il disco, infatti, ha il grande pregio di regalare all’ascoltatore una perfetta immagine del mondo musicale stonesiano, fatto non solo di un insieme di brillanti riletture, riff e ritmi blues ma anche di un nuovo modo di percepire la realtà da parte di una generazione che, all’epoca, faticava già a provare soddisfazioni. Purtroppo dischi così non se ne pubblicano più.
Marco Galvagni