PARTINICO ROSE
"Songs For Sad And Angry People"
(Sonoria Studio Rec., 2019)
L’uso spregiudicato dei prefissi è una malattia del rock, di musicisti, critica e pubblico. Quando qualcuno, a fine anni ’70 non usò la parola revival per i gruppi che si rifacevano in salsa aggressiva ai catacombali dischi di Nico, coniò invece l’insulsaggine di post punk. Ci pensò il decennio dopo a definire quei gruppi dark, ma la frittata era fatta: in 40 anni si son letti post hardcore, post rock, post metal … così in questi tritacarne fin dalla cornice di riferimento che sono generi e stili, la musica viene banalizzata o incompresa. È per questo motivo che Songs For Sad And Angry People sta subendo un equivoco, anche nelle recensioni positive: avvicinare il gruppo ai Bauhaus può essere una svista, ma a Nick Drake pura idiozia, perché vuol dire non aver capito né il cantautore inglese né i Partinico Rose. Il gruppo ragusano è alle prese con il fatto d’essersi gettato nella mischia con una proposta chiaramente dark in un mondo che rifiuta le coordinate precise e non piegate all’attualità: un terzetto ambizioso che cerca di esprimere la propria arte sulle coordinate dello spazio intermedio fra Cure e Joy Division in modo fieramente originale, aggiungendo un pizzico di spezie statunitensi che verranno svelate più avanti. Quest’originalità è la loro cifra, nel bene e nel male.
Il gruppo è composto da Vincenzo Cannizzo, chitarra e voce, Massimo Russo al basso e Carlo Schembari alla batteria, con la partecipazione in alcuni brani di Martina Monaca al violoncello. Giungono da una gavetta di 4 anni, più le esperienze precedenti. Il disco si presenta come un oggetto sfaccettato: idee geniali si mischiano ad inadeguate prestazioni sonore, perché una produzione vera, professionale, avrebbe dato un corpo possente ai voli pindarici dei musicisti. Soloni e soloncini della bassa fedeltà devono rassegnarsi: solo la buona rese fonica rende giustizia alla musica. In questo caso l’ascoltatore si trova di fronte ad un ottimo demo, ma ad un disco discreto che poteva essere più che buono se aiutato da un’industria invece miope e occupata a far esplodere bolle di sapone sempre più degradate e degradanti (chi ha detto TRAPpole?). La potenza del gruppo è nel dirigere le armonie fra il basso pulsante e una chitarra sognante e affilata che ricorda a tratti quella dei Lycia (la spezia speciale), il tutto propulso da una batteria sicura e vagamente settantiana. Esperienza e mestiere aiutano le canzoni a prendere vita: Slave Of Time è un pellegrinaggio fra malinconia e rabbia, fra nebbie e squarci dei riverberi degli strumenti, Misanthropy mette un pizzico di rock alternativo nella ricetta, I’m Looking For A Job la possibile colonna sonora di più generazioni, The Revenge il brano più aggressivo che viene propulso da una batteria chirurgicamente attenta ai dettagli di modulazione. Capolavoro è la finale Could You Share My Pain, in cui tutti gli elementi sopra descritti concorrono in un brano che si stampa nella memoria con la sua affascinante ossessività.
Cosa non va nel disco? La voce di Cannizzo ha ricevuto critiche (fuorvianti), l’unico accorgimento sarebbe di non comprimerla troppo rendendo eccessivamente stentorea la pronuncia sillabazione e consonanti. L’Italia ha avuto una sua scena dark caratterizzata da contenuti nostrani, i ragusani forse sono troppo anglofili (ma la Sicilia ha una tradizione in tal senso) e potrebbero cercare una via un po’ meno albionica. Il disco è godibile, una prima prova piena di speranze per una seconda migliore. Se i Partinico Rose avranno la possibilità di usufruire di una buona produzione, il futuro potrebbe rivelare al mondo un’italica nuova colonna musicale.
Luca Volpe