ELVIS
(Regia di Baz Luhrmann, 2022)

È nelle sale in questi giorni Elvis, il biopic sulla vita della prima rockstar mondiale, girato dal regista Baz Luhrmann, col bravissimo e centratissimo Austin Butler nel ruolo del protagonista e Tom Hanks nella parte del controverso manager Tom Parker detto il Colonnello. La pellicola è schizzata al primo posto del box office italiano dopo soli tre giorni di programmazione. Il film ripercorre la vita di Elvis Presley dall’infanzia alla sua prematura scomparsa a soli 42 anni, mettendo in luce soprattutto il perverso sodalizio che si venne a creare tra lui e il suddetto Colonnello, un rapace imbonitore proveniente dal circuito dei circhi di provincia farciti di cantanti country.

Nei primi venti minuti del racconto, che valgono da soli tutto il film, Luhrmann, autore di Romeo+Juliette e di Moulin Rouge, mette in scena tutta la sua cinematografia, catapultando lo spettatore nel caleidoscopico mondo degli Stati Uniti del sud, tra tendoni di chiesa Battista itinerante e house of blues madide di sudore. Il linguaggio utilizzato in questa prima parte è un mix tra grafica pubblicitaria, fumetto e crime story, in un serrato crescendo che ti tiene incollato allo schermo. I colori desaturati delle campagne, stridono alternati ai bagliori delle insegne al neon delle città, investite dall’improvviso boom economico post bellico. Sullo sfondo anche la tematica delle lotte di integrazione razziale. La cultura afroamericana, alla quale Elvis deve molto della sua formazione musicale, è presente in tutta la durata del film e sfocia nella sequenza in cui canta il brano di protesta If I Can Dream, ispirato dal celeberrimo discorso di Martin Luther King. La scenografia è barocca, volutamente kitsch, utilizzata come codice comunicativo, a dipingere Elvis e la sua crew come una tribù di zingari girovaghi a caccia di soldi. Risalta poco invece la grandezza del Presley autore e compositore, appena accennata nella scena in cui istruisce l’orchestra del live di Las Vegas e da cui traspare tutta la sua competenza musicale, oscurata dagli anni trascorsi a girare filmetti dozzinali per Hollywood.

Il risultato è godibile, nonostante i 160 minuti di durata, nell’insieme sembra però destinato ad un pubblico adolescente, con le continue strizzatine d’occhio ai supereroi. Il film soffre della eccessiva volontà di renderlo epocale, tipica attitudine delle più recenti produzioni hollywoodiane. La storia della prima e più grande rockstar di tutti i tempi bastava da sé a rendere grandioso un film, senza bisogno di artifizi tecnici ad ogni costo.

Nino Colaianni