IN MEMORIA DI TONY MCPHEE (1944-2023)
RETROSPETTIVA SUI GROUNDHOGS

Il 6 giugno scorso è mancato Tony McPhee, chitarrista blues e leader dei Groundhogs, una formazione che è partita dal british blues degli anni ’60 per poi elaborare un significativo ibrido fra il blues degli esordi e l’heavy-psych dei primi anni ’70. Colgo l’occasione, anche come sentito epitaffio per la scomparsa di uno dei chitarristi inglesi più bravi e meno valorizzati della storia del rock, per descrivere a grandi linee la parabola dei Groundhogs, con uno sguardo anche al Tony McPhee solista.

The Groundhogs

I Groundhogs nascono in concomitanza con la nascita del british blues. Nel 1962, quando i demiurghi del blues inglese Cyril Davies, John Mayall e Alexis Korner iniziano a gettare i primi sassi di quella che sarà la felice stagione del british blues, due fratelli nati a Calcutta e poi emigrati nella loro madre patria, John è Pete Cruickshank danno vita ad una band denominata The Dollar Bills. Ad essa si unisce un chitarrista dal soprannome suggestivo di Reverendo che all’anagrafe fa Tony McPhee, musicista che aveva già una certa esperienza con il blues. È stato McPhee a dare l’imprinting blues alla formazione, poiché i fratelli Cruickshank erano di estrazione rock’n’roll fifties. E sempre McPhee ha suggerito il cambio della ragione sociale in Groundhogs, ispirandosi al titolo di un brano di John Lee Hooker: Groundhog’s Blues. I Groundhogs iniziano a farsi un seguito nel circuito dei seguaci del blues in terra d’Albione partecipando a dun concerto e a registrazioni in studio del grande John Lee Hooker. Grazie alla collaborazione con questo illustre musicista il nome dei Groundhogs circola dell’underground londinese; seguono nuove collaborazioni dal vivo con altri maestri del blues come Jimmy Feed, Little Walter e Champion Jack Dupree: con quest’ultimo collaborano all’incisione di un suo disco insieme ad un altro ospite allora anche lui esordiente, Eric Clapton. Arrivano all’incisione nel 1965 di un paio di 45 giri: Shake It/Rock It e Someone To Love Me/Don’t Gonna Cry No More: sono due singoli di blues classico debitore alla lezione dei padri del Delta blues. Quindi ritornano alla Corte di John Lee Hooker incidendo lo splendido Hooker & The Hogs. Ascoltando questo disco, uno dei lavori seminali del british blues, si riesce a comprendere quanto gli inglesi abbiano saputo ben metabolizzare la lezione dei grandi bluemen afroamericani. Dopo Hooker & The Hogs la band sparisce dalle scene per 3 anni.

Ritorna nel 1968: John Cruickshank ha abbandonato ed è stato sostituita da Ken Pulstelnik e con l’ingresso di Steve Rye alla voce e all’armonica la line-up si allarga a 4 membri. Con questa formazione incidono il primo LP: Scratchin’ The Surface. È un disco legato al british blues fino al midollo che ha influenze mutuate dal grande maestro John Lee Hooker e, se vogliamo trovare un referente nel british blues, da John Mayall. Tutti i brani sono legati a stilemi standard blues e il disco scivola via gradevolmente senza picchi e voragini, egualmente ripartito fra brani originali e cover (Early In The Morning di Sonny Boy Williamson, No More Diggin’ di Roscoe Gordon, You Don’t Love Me di Willie Cobbs, Still A Fool di Muddy Waters). Quello che si nota in questo disco sono le funamboliche doti di Tony McPhee alla chitarra e la padronanza nel maneggiare il linguaggio delle 12 battute. Con il primo LP si chiude il periodo british blues dei Groundhogs.

Nel 1969 esce Blues Obituary, il primo disco capolavoro dei Groundhogs. Steve Rye lascia e rimangono McPhee, Cruickshank e Pulstelnik nella forma del power trio alla Cream. Metaforico fin dal titolo Blues Obituary testimonia la morte del british blues sotto l’incalzare dei tempi che cambiano, ma sarebbe un errore considerare l’album un nostalgico e mesto epitaffio del genere, che anzi viene rivitalizzato alla luce della nuova sensibilità musicale. Il disco è la svolta del gruppo, una cuspide fra le precedenti suggestioni british blues e l’underground heavy psych dei primi anni ’70. Con il risultato di un originale impasto fra tradizione blues e sonorità hard psichedeliche. Brani degni di nota le hendrixiane Daze Of The Weak e Natchez Burning, l’heavy-psych-blues roccioso di Mistreated, il sofferto southern blues Time e il tribale raga psichedelico Light Was The Day basato sullo stravolgimento di un blues di Blind Willie Johnson. Prima di proseguire con la cronistoria della band vorrei sottolineare un aspetto di Blues Obituary che considero fondamentale. Ci sono 3 album in quel periodo ricco di fermento che va dal 1967 al 1969 che possono essere paradigmatici circa questa nuova reinterpretazione del blues su basi lisergiche che ha contraddistinto il passaggio verso l’heavy-psych. Più paradigmatiche degli stessi Led Zeppelin, i quali hanno in fondo apportato solo un aggiornamento del vecchio blues alla nuova sensibilità. Questi 3album sono Disraeli Gears dei Cream, Stonedhenge dei Ten Years After e Blues Obituary dei Groundhogs. Questi 3 dischi possiedono quelle intuizioni che hanno dato l’abbrivio a quell’interessante stagione underground denominata heavy-psych che contempla blues, psichedelia e hard rock. Questo per rimarcare l’importanza di Blues Obituary quale album iniziatore di un’interessante corrente del sottobosco early seventies.

Arriviamo al 1970 ed esce Thank Christ For The Bomb. Questo è il disco della svolta politica della band. I testi sono politicizzati e su tutti predomina la caustica presa di posizione contro la guerra del Vietnam della title track. Musicalmente la transizione verso sonorità più hard è compiuta. Rispetto al precedente Blues Obituary c’è più linearità nello svolgimento della scaletta ed è più granitico nell’impianto sonoro. Tra i brani spicca l’hard blues di Soldier, la già menzionata title-track, una minisuite che parte come un folk acustico e si trasforma in un arrembante e scatenato hard rock strumentale per poi sfumare in rumori di fondo e scoppi di bombe (brano da paura), la ballad lisergica Garden profumata di belle aperture heavy-psych, la bella denuncia sociale di Rich Man, Poor Man, il grintoso hard blues di Eccentric Man che quasi rasenta gli ZZ Top. Passa un altro anno e nel 1971 esce Split ed è un altro disco coi controfiocchi. La formula hard rock/heavy psych ormai è ben rodata, al punto che i Groundhogs possono modellarci sopra una suite. La prima facciata è dominata dalla suite Split. È un capolavoro che mescola Hendrix all’interno di lunghe improvvisazioni di chitarra che fanno volare l’hard rock alle stelle e in alcuni passaggi addirittura arriva a prefigurare l’heavy metal della NWOBHM. La suite è divisa in 4 parti, si avventura in territori heavy-psych con sublimazione a basi di wah wah hendrixiani, scolpisce il blues delle origini nel granito dell’hard rock, si libera in vibranti elettricità hard-boogie. È un capolavoro inarrivabile, insieme a Blues Obituary il punto più alto della carriera dei Groundhogs. Ma anche gli altri 4 brani della seconda facciata sono degni di nota: qui c’è una deriva più sperimentale. Cherry Red è pura grinta hard rock che non ha nulla da invidiare ai Deep Purple; A Year In The Life è una sghemba ballad ipnotica; Junkman è una stramberia che mescola istrionismo cabarettistico ad un oscuro heavy-psych con folli e stridenti dissonanze di chitarra fra le quali si riconosce anche l’incipit della Foxy Lady hendrixiana; Groundhog è un ritorno alle origini nella veste di un omaggio sentito a John Lee Hooker fin dal timbro vocale che imita il grande bluesman. Con Split termina il trittico che costituisce lo zoccolo duro della band, quello dei primi tre dischi da avere: è iniziato con Blues Obituary, e poi continuato con Thank Christ For The Bomb e culminato con Split. Seguono nella rosa dei dischi da avere Hooker & The Hogs e Scratchin The Surface. E poi il successore di Split: Who Will Save The World? The Mighty Groundhogs, uscito nel 1972.

Il nuovo disco prosegue nei testi il solco politicizzato di Thank Christ For The Bomb poiché è un album di denuncia sociale nei confronti delle ingiustizie del mondo quali guerra, disparità sociali e inquinamento, portata avanti anche con un’ironia tipicamente british. Musicalmente è un disco dalle sonorità più pulite e c’è l’ingresso del mellotron che denota un orientamento verso la scena prog. È ancora tutto sommato un disco valido, nonostante le cadute di tono presenti, un disco godibile che si fa apprezzare senza ricadere nel completismo. Certo il confronto coi 3 dischi precedenti non regge; c’è una certa discontinuità nella successione dei brani e la presenza di arrangiamenti più edulcorati contrasta con il suono più roccioso degli album precedenti. Da notare Wages Of Peace, un bel mid-tempo blues, la solida Bog Rolls Blues, l’epica e amara Earth Is Not Room Enough, anche se la presenza del mellotron si fa un po’ troppo invasiva per i miei gusti. Poi la baroccheggiante Death Of The Sun e soprattutto la lunga jam di 10 minuti di The Grey Maze, il punto più alto del disco: è un recupero delle belle intuizioni di Split, con la presenza del mellotron che dà un tocco di sopraffino prog all’insieme hard del brano. Qui Tony McPhee torna all’antico esibendosi nelle sue fulminanti jam chitarristiche e lo fa con una foga rinnovata: questa lunga suite salva il disco dall’ambito del completismo.

Le cadute di tono sono le deboli Body In Mind e Music Is The Food Of Though; fuori luogo la cover del celebre gospel Amazing Grace, qui riproposta nella veste di una pomposa fanfara, per nulla in sintonia con il resto del disco. Segue Hogwash del 1973, un tentativo di riallacciarsi alle sonorità dure di Split senza però riuscirvi appieno. L’album però per la maggior parte dei suoi pezzi funziona. Rispetto al disco precedente c’è più coesione e più grinta hard rock, però gli 8 brani che lo compongono dimostrano che l’hard rock venato di blues della band non sta ancora mostrando la corda e ha ancora frecce al suo arco. Tutti i brani si susseguono con grinta, anche se dietro l’angolo inizia a comparire la stampella della maniera. Da notare You Had A Lesson per la sua severa atmosfera di suspence anche grazie a un mellotron un po’ gotico, l’hard blues da b-movie poliziesco di 3744 James Road, il punto più alto del disco è quello più vicino ai lavori del periodo d’oro, la trascinante Sad Or The Hunter, roccioso hard boogie ricco di wah wah hendrixiani, la bizzarra S’One Song che si divide in due parti, la prima più scanzonata e la seconda un’obliqua folk-blues song. Poi l’altisonante Earth Shanty, minisuite che inizia con una subliminale e chiesastica apertura di mellotron con onomatopee di onde marine da cui traspaiono immagini fantastiche di leggende marine e poi prosegue con un folk-prog corale ben ispirato e il blues acustico Mr Hooker, Sir John, nuovo tentativo di rendere filologicamente omaggio all’antico maestro John Lee Hooker. Unico neo il breve intermezzo di The Ringmaster, come se si volesse a tutti i costi inserire un po’ di maquillage sperimentale. A dispetto di quello che dice la critica Hogwash è ancora un bel disco, da tenere negli scaffali.

Nel 1974 esce Solid. È l’ultimo album legato alla formazione storica dei Groundhogs e rispetto al predecessore rivela un deciso inaridimento della vena creativa. Un album fiacco che è il segnale che il sound della band è arrivato al capolinea e le sonorità mostrano il sentore della ripetività e della stanca. Il cantato è scaduto in un vocalizzo roco. Anche la produzione e gli arrangiamenti non sono ai massimi livelli. È un album debole che sarebbe già per completisti, però se si vuole avere tutta l’opera omnia del periodo storico si può fare un’eccezione. Episodi da salvare sono Free Form All Alarm, un blues acustico nello stile del Delta che poi si trasforma in un bel rock blues abrasivo di quelli che fanno fuoco e fiamme, Light My Light e un deciso roots blues e la suite finale di Joker’s Grave, un’avventura con il volto di un mantra tribale dal vago sapore western, che dignitosamente cerca di inseguire le cose migliori del passato: significativa in questa suite la spasmodica fuga a base di chitarra fuzzin’ e percussioni. Il resto del disco è al ribasso: Corn Cob è uno zoppicante folk-jazz anche un po’ cialtronesco; Sins Of The Father è un maldestro e raffazzonato tentativo di coniugare il rock blues con il prog; Sad Go Round e Plea Sing, Plea Song sono inutili riempitivi, Snowstorm vuole essere epica ma scantona nel grottesco. Dopo Solid i Groundhogs si sciolgono. Termina l’epoca d’oro dei Groundhogs.

Ma nell’anno successivo Tony McPhee riforma la band con nuovi elementi per due nuovi album, Black Diamond e Crosscut Saw. Non ci dilungheremo sulla produzione dei nuovi Groundhogs dopo Solid perchè si tratta di pochi dischi dilatati nel tempo come uscite e assolutamente non indispensabili, se non per assiduo completismo. Black Diamond e Crosscut Saw sono due album di onesto mestiere in cui la vecchia formula hard blues subisce un trattamento di maniera. Qualche volta si scivola nell’AOR e nel rock più radiofonico. Non ci sono brani memorabili ma, come ho scritto sopra, l’attività di dignitosi mestieranti è un pallido ricordo dei capolavori dei tempi che furono. Dopo questi due album i Groundhogs si sciolgono di nuovo e stavolta definitivamente a quanto pare.

Invece alla metà degli anni ’80 Tony McPhee rimette in piedi la vecchia sigla con nuovi musicisti per realizzare altri due nuovi dischi – Razor’s Edge e Back Against The Wall – che sono un ritorno all’antico rock-blues: due album che però non aggiungono nulla di nuovo al sound della band. Per tutto il resto della carriera la band ha proseguito dedicandosi principalmente all’attività live tra un concerto in giro per il mondo e pubblicazioni di album dal vivo. Scarsa la pruduzione in studio, una menzione soltanto ai due sentiti omaggii a Muddy Waters, The Muddy Waters Song Book, e a Howlin Wolf, Hogs In Wolf’s Clothing. Poi il 6 giugno di quest’anno la morte di Tony McPhee.

Tony McPhee: “The Two Side Of Tony (T.S.) McPhee”

A compendio di questa retrospettiva dei Groundhogs vorrei menzionare il primo disco solista di Tony McPhee: The Two Side Of Tony (T.S.) McPhee. L’anno in cui uscì è il 1973, tra i 2 album dei Groundhogs Hogwash e Solid. Il disco è una sorpresa che rivela un lato avanguardistico del chitarrista, come se quest’ultimo avesse avuto finalmente l’occasione di dar sfogo alla sua creatività senza rimanere legato agli schemi hard/heavy-psych dei Groundhogs. Questo è un album double-face perché sfodera due volti che sono l’uno l’opposto dell’altro, in due facciate completamente differenti fra loro: la prima guarda al passato, la seconda guarda al futuro. Il titolo dell’album è esplicativo: due facce dello stesso musicista che gettano un ponte fra passato lontano e futuro fantascientifico immaginario.

La prima facciata è tutta acustica ed è composta da 5 brani solo voce e chitarra che sono una riproposizione degli stilemi del Delta blues d’anteguerra, eseguiti con passione filologica e con l’amore riconoscente verso la musica dei padri; praticamente un ritorno alle origini, una risalita a salmone verso le radici del blues. Menziono solo il sofferto strumentale Take It Out fra i 5, un soliloquio stravolto di chitarra slide che anticipa George Thorogood.

La seconda facciata è interamente occupata dalla suite The Hunt. Come l’altra faccia della Luna rivela un volto straordinariamente sperimentale e inaspettato di Tony McPhee. Si tratta di una lungo viaggio siderale di elettronica cosmica che ricorda da vicino le sinfonie stellari di Klaus Schulze, le robotiche pulsazioni dei Kraftwerk addirittura rasentano la proto-techno grazie all’impiego di una drum machine che ai tempi era poco utilizzata. E non è tutto. Ci sono paesaggi sonori cosmico-ambientali che tracciano una traiettoria Brian Eno-Tangerine Dream con una voce recitante che pare quella di chi sta comunicando dallo spazio, scampoli dadaisti sincopati alla Residents condite da dosi di visionaria follia, stralunati gargarismi vocali, anticipazioni di musica da Guerre Stellari e prefigurazioni di Blade Runner, scie elettroniche in un futuribile impasto Kraftwerk-Suicide, addirittura si precorre in certi passaggi l’energy disco moroderiana. The Hunt è un capolavoro di avanguardia proiettata nel futuro che sviluppa le idee dei corrieri cosmici tedeschi e anticipa tanta elettronica a venire. Dopo il trittico Blues ObituaryThank Christ For The BombSplit è assolutamente da avere.

Marco Fanciulli

 

Tony McPhee’s Groundhogs

The Groundhogs

The Groundhogs Social

Mistreated

Soldier

Cherry Red

The Hunt